Lo stupro come elemento di coercizione sociale
Riceviamo e pubblichiamo:
E’ difficile chiamare “cultura” quell’insieme di credenze legate alla violenza, alla sua legittimità e alla sua accettazione. Eppure alcuni particolari sub-culturali sono difficili a morire. Quando si parla di “stupro” si pensa sempre alla forza con cui un individuo costringe un altro ad atti sessuali o di libidine. Eppure si parla anche, in alcuni discorsi un po’ coloriti di “stupro” del diritto, culturale, etc … questo perché nella sua generalità il termine è legato alla violenza, alla costrizione, alla forzosa penetrazione nel privato del prossimo, e non soltanto alla sessualità o alla genialità. E’ qui che lo “stupro” diventa cultura della violenza par exellance. Cultura dello stupro è dire a una donna che è “solo una donna”, o dire a un uomo che è una donna, con toni o modi atti a volerli denigrare. La cultura dello stupro è scrivere, filmare, produrre opere cinematografiche in cui la violenza esplicita viene mostrata nel suo orrore e depravazione perché “si devono vedere le cose che facevano, per capire” attraendo le menti acerbe alla vista di film o serie come Roma, Spartacus, film horror estremi in cui la mente si abitua ad accettare la violenza davanti alla dimostrazione depotenziata della stessa, proprio come un organismo si vaccina contro i microbi introducendone alcuni, depotenziati, per mezzo del vaccino. Solo che non esiste vaccino alla violenza, ma soltanto assuefazione. La cultura dello stupro è abituarsi alla violenza dell’uomo sull’uomo, anche con la cinematografia che dovrebbe essere la nostra nuova letteratura. Cultura dello “stupro” è terrorizzare le masse su argomenti che meriterebbero timore, studio, riflessione. Tutto, tranne la paura. Una paura sottile che induce una donna a non denunciare chi le ha usato violenza, che isola un bambino vittima delle impudicizie di qualche adulto, che spinge un malato di HIV ad avere più timore del pubblico biasimo che dell’AIDS a cui andrà incontro. La cultura dello stupro si sviluppa perché la società insegna che “ciò che si vuole” è un diritto, tutto ciò che si vuole, se lo si vuole in massa, lo si può richiedere. Se uno vuol fare qualcosa di nuovo è impossibile, se la si chiede in cento diventa legge. Questa è stata una divaricazione tra la legge naturale e legge umana, tra diritto naturale e diritto civile, fino allo squarciamento totale nell’indifferenziata acquiescenza. Il vizio, in questa moderna accezione è tale solo se è una pratica nuova, inusuale, compiuta da pochi, ma se diventa pratica diffusa, ciò che veniva visto come impensabile diventa un diritto; anzi, sembra una violenza non concederlo. Tornare ad una serena e non orientata riflessione sul diritto naturale, potrebbe facilitare anche i non credenti a riflettere su una realtà di cui perfino Aristotele poneva l’esistenza. Se esiste un diritto naturale, esiste anche una legge naturale e, di conseguenza, una differenziazione con quella della civitas, con quella civile. Nella legge civile, quella umana potrebbero quindi esserci dei vulnus o delle realtà operanti non opportune o addirittura dannose. Diritto non sarebbe più, quindi, legato alla mera volontà, ma a delle logiche naturali e legittime. Cambiare l’il-logica del nostro secolo porterà il singolo, la famiglia, la politica, persino l’economia e la pubblicità a convincersi che il “movimento del bacino”, non è un movimento a sostegno della donna e che, quindi, il “volere” non può essere il punto centrale su cui si muove la società civile. Nella vita si possono volere molte cose, ma non tutte possono essere giuste. Il possedere anziché il donare, l’avere più che l’essere, sono costanti a cui i mezzi di persuasione di massa ci mettono in contatto già dalla più tenera età per “regredire” la persona allo stadio di individuo, di uomo isolato, chiuso nel proprio privato, pieno di timori, di angosce, di insoddisfazioni per un qualcosa che non si conosce, ma che si desidera, e che non arriva mai.
Danilo Campanella - danilocampanella.org
E’ difficile chiamare “cultura” quell’insieme di credenze legate alla violenza, alla sua legittimità e alla sua accettazione. Eppure alcuni particolari sub-culturali sono difficili a morire. Quando si parla di “stupro” si pensa sempre alla forza con cui un individuo costringe un altro ad atti sessuali o di libidine. Eppure si parla anche, in alcuni discorsi un po’ coloriti di “stupro” del diritto, culturale, etc … questo perché nella sua generalità il termine è legato alla violenza, alla costrizione, alla forzosa penetrazione nel privato del prossimo, e non soltanto alla sessualità o alla genialità. E’ qui che lo “stupro” diventa cultura della violenza par exellance. Cultura dello stupro è dire a una donna che è “solo una donna”, o dire a un uomo che è una donna, con toni o modi atti a volerli denigrare. La cultura dello stupro è scrivere, filmare, produrre opere cinematografiche in cui la violenza esplicita viene mostrata nel suo orrore e depravazione perché “si devono vedere le cose che facevano, per capire” attraendo le menti acerbe alla vista di film o serie come Roma, Spartacus, film horror estremi in cui la mente si abitua ad accettare la violenza davanti alla dimostrazione depotenziata della stessa, proprio come un organismo si vaccina contro i microbi introducendone alcuni, depotenziati, per mezzo del vaccino. Solo che non esiste vaccino alla violenza, ma soltanto assuefazione. La cultura dello stupro è abituarsi alla violenza dell’uomo sull’uomo, anche con la cinematografia che dovrebbe essere la nostra nuova letteratura. Cultura dello “stupro” è terrorizzare le masse su argomenti che meriterebbero timore, studio, riflessione. Tutto, tranne la paura. Una paura sottile che induce una donna a non denunciare chi le ha usato violenza, che isola un bambino vittima delle impudicizie di qualche adulto, che spinge un malato di HIV ad avere più timore del pubblico biasimo che dell’AIDS a cui andrà incontro. La cultura dello stupro si sviluppa perché la società insegna che “ciò che si vuole” è un diritto, tutto ciò che si vuole, se lo si vuole in massa, lo si può richiedere. Se uno vuol fare qualcosa di nuovo è impossibile, se la si chiede in cento diventa legge. Questa è stata una divaricazione tra la legge naturale e legge umana, tra diritto naturale e diritto civile, fino allo squarciamento totale nell’indifferenziata acquiescenza. Il vizio, in questa moderna accezione è tale solo se è una pratica nuova, inusuale, compiuta da pochi, ma se diventa pratica diffusa, ciò che veniva visto come impensabile diventa un diritto; anzi, sembra una violenza non concederlo. Tornare ad una serena e non orientata riflessione sul diritto naturale, potrebbe facilitare anche i non credenti a riflettere su una realtà di cui perfino Aristotele poneva l’esistenza. Se esiste un diritto naturale, esiste anche una legge naturale e, di conseguenza, una differenziazione con quella della civitas, con quella civile. Nella legge civile, quella umana potrebbero quindi esserci dei vulnus o delle realtà operanti non opportune o addirittura dannose. Diritto non sarebbe più, quindi, legato alla mera volontà, ma a delle logiche naturali e legittime. Cambiare l’il-logica del nostro secolo porterà il singolo, la famiglia, la politica, persino l’economia e la pubblicità a convincersi che il “movimento del bacino”, non è un movimento a sostegno della donna e che, quindi, il “volere” non può essere il punto centrale su cui si muove la società civile. Nella vita si possono volere molte cose, ma non tutte possono essere giuste. Il possedere anziché il donare, l’avere più che l’essere, sono costanti a cui i mezzi di persuasione di massa ci mettono in contatto già dalla più tenera età per “regredire” la persona allo stadio di individuo, di uomo isolato, chiuso nel proprio privato, pieno di timori, di angosce, di insoddisfazioni per un qualcosa che non si conosce, ma che si desidera, e che non arriva mai.
Danilo Campanella - danilocampanella.org
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