Come Dovrebbero Essere Determinati i Prezzi?
di Henry Hazlitt
“Come dovrebbero essere determinati i prezzi?” A questa domanda potremmo offrire una risposta breve e semplice: i prezzi dovrebbero essere determinati dal mercato.
La risposta è abbastanza corretta, ma è necessaria un po’ di elaborazione per risolvere il problema pratico relativo alla presunta saggezza dello stato nel controllare i prezzi.
Cominciamo a livello elementare e diciamo che i prezzi sono determinati dalla domanda e dall’offerta. Se la domanda di un prodotto aumenta, i consumatori saranno disposti a pagare di più per ottenerlo, le loro offerte competitive li obbligheranno a pagare di più e consentiranno ai produttori di produrne di più. Ciò permetterà di aumentare i margini di profitto dei produttori del suddetto prodotto cosa che, a sua volta, tenderà ad attrarre più imprese nella fabbricazione di tale prodotto, e stimolerà le imprese esistenti ad investire più capitale per produrlo. L’aumento della produzione tenderà a ridurre di nuovo il prezzo del prodotto, ed a ridurre il margine di profitto nel produrlo. L’aumento degli investimenti nei nuovi impianti di produzione può ridurre il costo di produzione, oppure — in particolare se ci occupiamo di alcune industrie estrattive come quella petrolifera, dell’oro, dell’argento o del rame — l’aumento della domanda e della produzione potrebbero aumentarne il costo di produzione. In ogni caso, il prezzo avrà un effetto definitivo sulla domanda, sulla produzione e sui costi di produzione poiché questi a loro volta influenzeranno il prezzo. Tutti e quattro — domanda, offerta, costi e prezzi — sono correlati. Un cambiamento in uno porterà cambiamenti negli altri.
Così come la domanda, l’offerta, il costo e il prezzo di ogni singola merce sono tutti correlati, anche i prezzi di tutte le merci sono correlati. Queste relazioni sono sia dirette che indirette. Le miniere di rame possono produrre argento come sottoprodotto; questa è connessione di produzione. Se il prezzo del rame va troppo in alto, i consumatori possono sostituirlo con l’alluminio per molti usi; questa è una connessione di sostituzione. Dacron e cotone sono utilizzati entrambi per le camicie; questa è una connessione di consumo.
In aggiunta a queste connessioni relativamente dirette tra i prezzi, vi è una interconnettività inevitabile tra tutti i prezzi. Un fattore generale di produzione, il lavoro, può essere deviato, nel breve o nel lungo periodo, direttamente o indirettamente, da una linea a qualsiasi altra linea di produzione. Se una merce sale di prezzo, ed i consumatori non sono disposti o in grado di sostituirla con un’altra, saranno costretti a consumare un po’ meno di qualcos’altro. Tutti i prodotti sono in concorrenza per il dollaro del consumatore; e un cambiamento in qualsiasi prezzo influenzerà un numero indefinito di altri prezzi.
Nessun prezzo singolo, pertanto, può essere considerato un elemento isolato. E’ correlato con tutti gli altri prezzi. È proprio attraverso queste interrelazioni che la società è in grado di risolvere il problema estremamente difficile (e sempre mutevole) di come allocare la produzione tra migliaia di beni e servizi in modo che ciascuno di essi possa essere fornito (per quanto possibile) in relazione all’urgenza comparativa della necessità o del desiderio.
Poiché il desiderio e la necessità, la fornitura e il costo, di ogni singola merce o servizio sono in costante evoluzione, anche i prezzi e le relazioni dei prezzi sono in costante evoluzione. Cambiano annualmente, mensilmente, settimanalmente, giornalmente, ogni ora. Le persone che pensano che i prezzi normalmente rimangono fissi, o che possono essere facilmente inchiodati ad un livello “giusto,” potrebbero passare un’ora a guardare il ticker del mercato azionario, o a leggere il rapporto giornaliero sui giornali di quello che è successo il giorno precedente nel mercato dei cambi e nei mercati del caffè, del cacao, dello zucchero, del grano, del mais, del riso e delle uova; del cotone, delle pelli, della lana e della gomma; del rame, dell’argento, del piombo e dello zinco. Scopriranno che nessuno di questi prezzi sta mai fermo. È per questo che i costanti tentativi degli stati di abbassare, alzare, o congelare un particolare prezzo, o congelare l’interrelazione dei salari e dei prezzi dove si trovavano in una certa data, sono destinati ad essere distruttivi qualora non risultassero solamente inutili.
Supportare il Prezzo degli Articoli Esportati
Cominciamo prendendo in considerazione gli sforzi degli stati nel mantenere alti i prezzi, o nel farli crescere. Gli stati cercano di farlo molto spesso per quelle merci che costituiscono un elemento principale delle loro esportazione. Il Giappone lo faceva tempo fa per la seta e l’Impero Britannico per la gomma naturale; il Brasile lo ha fatto (e lo fa ancora periodicamente) per il caffè; e gli Stati Uniti lo fanno ancora per il cotone e il grano. La teoria recita che l’aumento del prezzo di questi prodotti di esportazione può solo fare del bene e non del male alla nazione, poiché aumenterà il reddito dei produttori nazionali a spese dei consumatori stranieri.
Tutti questi sistemi seguono un corso tipico: viene presto scoperto che il prezzo del prodotto non può essere aumentato a meno che non venga ridotta la sua offerta. All’inizio questa situazione può portare a restrizioni nelle superfici in acri, ma il prezzo più alto dà un incentivo ai produttori affinché aumentino la loro resa media per ettaro piantando il prodotto supportato solo sui loro ettari più produttivi, ed impiegando più fertilizzanti, irrigazione, e lavoro. Quando lo stato scopre che sta accadendo tutto ciò, impone controlli quantitativi su ogni produttore basandosi di solito sulla loro produzione precedente in una determinata serie di anni. Il risultato di questo sistema di quote è quello di tenere fuori la concorrenza; bloccare tutti i produttori esistenti nella loro posizione, e quindi mantenere alti i costi di produzione rimuovendo i principali meccanismi ed incentivi per ridurre tali costi. Vengono pertanto impediti aggiustamenti necessari.
Nel frattempo, però, le forze di mercato sono ancora funzionanti nei paesi stranieri e si oppongono a pagare tale prezzo più alto: vengono tagliati gli acquisti della merce sostenuta artificialmente e ricercano altre fonti di offerte. Il prezzo più alto fornisce un incentivo ad altri paesi affinché inizino a produrre la merce sostenuta artificialmente. Pertanto la gomma Britannica portò i produttori Olandesi ad aumentare la produzione di gomma, questo non solo abbassò i prezzi della gomma ma fece in modo che gli Inglesi perdessero definitivamente la loro precedente posizione monopolistica. Inoltre, il piano Britannico suscitò risentimento negli Stati Uniti, il principale consumatore, e stimolò alla fine lo sviluppo vittorioso della gomma sintetica. Allo stesso modo, senza entrare nel dettaglio, il piano del Brasile per il caffè e quello dell’America per il cotone diedero un incentivo ad altri paesi affinché avviassero o aumentassero la produzione di caffè e cotone, e sia il Brasile che gli Stati Uniti persero le loro precedenti posizioni monopolistiche.
Nel frattempo, in patria, tutti questi sistemi richiedono l’istituzione di un elaborato sistema di controlli ed un’intricata burocrazia per formularli e farli rispettare. Devono essere elaborati in quanto ogni singolo produttore deve essere controllato: un esempio di ciò lo si può trovare nel Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. Nel 1929, prima che entrasse in vigore la maggior parte dei controlli sulle colture, c’erano 24,000 persone impiegate presso il Dipartimento dell’Agricoltura. Oggi ce ne sono 109,000. Queste enormi burocrazie, naturalmente, hanno sempre un certo interesse nel trovare ragioni per le quali i controlli che devono far rispettare vengano prolungati ed ampliati. E naturalmente questi controlli limitano la libertà dell’individuo e generano maggiori restrizioni.
Nessuna di queste conseguenze sembra scoraggiare gli sforzi dello stato nell’aumentare i prezzi di alcuni prodotti al di sopra dei loro livelli in un mercato competitivo. Esistono ancora accordi internazionali per il caffè ed accordi internazionali per il grano; una particolare ironia è che gli Stati Uniti sono stati uno degli sponsor nell’organizzazione dell’accordo internazionale per il caffè, anche se i loro abitanti sono i principali consumatori di caffè e quindi le vittime più immediate dell’accordo. Un altro paradosso è che gli Stati Uniti impongono quote di importazione per lo zucchero, le quali fanno necessariamente distinzione tra alcuni paesi esportatori di zucchero e tutti gli altri. Queste quote costringono tutti i consumatori Americani a pagare prezzi più elevati per lo zucchero in modo che una piccola minoranza di produttori Americani di canna da zucchero possa ottenere prezzi più alti.
Non c’è bisogno di sottolineare che questi tentativi di “stabilizzare” o aumentare i prezzi dei prodotti agricoli primari politicizzano ogni decisione sui prezzi e sulla produzione, e creano attriti tra le nazioni.
Tenere Bassi i Prezzi
Passiamo ora a parlare degli sforzi dello stato nell’abbassare i prezzi o come minimo nell’impedire un loro aumento. Questi sforzi si ripetono nella maggior parte dei paesi, non solo in tempo di guerra ma in ogni momento in cui c’è inflazione. Il processo tipico è questo: lo stato, per qualsiasi motivo, segue politiche che aumentano la quantità di moneta e di credito; ciò porta inevitabilmente ad un aumento dei prezzi. Ma tale scenario non è popolare tra i consumatori, pertanto lo stato promette di “contrastare” ulteriori aumenti dei prezzi.
Diciamo che inizia con pane, latte ed altre necessità. La prima cosa che accade, ammesso che possa far valere i suoi decreti, è la diminuzione del margine di profitto nella produzione delle necessità, o la sua scomparsa per i produttori marginali, mentre il margine di profitto nella produzione di beni di lusso rimane invariato o sale più in alto. Questo riduce e scoraggia la produzione delle necessità prese di mira ed incoraggia l’aumento della produzione dei beni di lusso. Ma ciò è esattamente il risultato opposto di quello che avevano in mente i controllori dei prezzi. Se lo stato poi tenta di evitare lo scoraggiamento sopracitato riducendo il costo delle materie prime, del lavoro e di altri fattori di produzione, dovrà iniziare a controllare i prezzi ed i salari in cerchi sempre più ampi finché infine cercherà di controllare i prezzi di tutto.
Ma se cerca di farlo fino in fondo, si ritroverà a cercare di controllare letteralmente milioni di prezzi e miliardi di prezzi. Fisserà rigide allocazioni nonché quote per ciascun produttore e per ogni consumatore. Naturalmente questi controlli dovranno estendersi in modo dettagliato sia agli importatori che agli esportatori.
Se uno stato continua a creare più moneta da un lato, mentre dall’altro tiene rigidi i prezzi, causerà danni immensi. E si noti, inoltre, che anche se lo stato non inflaziona la valuta ma cerca di tenere i prezzi assoluti o relativi proprio lì dove si trovavano, o istituisce una “politica dei redditi” o una “politica salariale” redatta in conformità con qualche formula meccanica, causerà danni sempre più gravi. In un mercato libero anche quando il cosiddetto “livello” dei prezzi non cambia, tutti i prezzi sono in costante evoluzione in relazione gli uni agli altri. Rispondono alle dinamiche dei costi di produzione, dell’offerta e della domanda per ciascun prodotto o servizio.
E questi cambiamenti nei prezzi, sia assoluti che relativi, sono necessari ed auspicabili poiché direzionano il capitale, il lavoro ed altre risorse dalla produzione di beni e servizi che sono meno ricercati verso la produzione di beni e servizi che sono più voluti. Regolano il bilanciamento della produzione rispetto ai cambiamenti incessanti della domanda. Permettono la produzione di migliaia di beni e servizi nella precisa quantità in cui sono socialmente desiderati. Tali quantità relative cambiano ogni giorno, pertanto gli aggiustamenti del mercato e dei prezzi e gli incentivi salariali che portano a questi aggiustamenti devono cambiare ogni giorno.
Il Controllo dei Prezzi Distorce la Produzione
Il controllo dei prezzi riduce, squilibra, distorce e scoordina la produzione. Il controllo dei prezzi diventa progressivamente dannoso con il passare del tempo. Anche un prezzo fisso o una connessione di prezzo che puo’ essere “giusta” o “ragionevole” in un dato giorno, puo’ diventare sempre più irragionevole o impraticabile.
Quello di cui gli stati non si rendono conto è che, per quanto riguarda qualunque merce, la cura per i prezzi elevati è rappresentata da prezzi elevati. Essi conducono l’economia verso i consumi, e stimolano e aumentano la produzione. Entrambi questi risultati aumentano l’offerta e tendono a far abbassare di nuovo i prezzi.
Molto bene, potrebbe dire qualcuno; quindi il controllo dello stato sui prezzi è dannoso in molti casi, ma finora si è parlato come se il mercato fosse governato dalla concorrenza perfetta. Che dire dei mercati monopolistici? Che dire dei mercati in cui i prezzi sono controllati o fissati da grandi imprese? Lo stato non deve intervenire (se non altro per imporre la concorrenza o far emergere il prezzo che sarebbe emerso se ci fosse stata una concorrenza reale)?
I timori della maggior parte degli economisti riguardo i mali del “monopolio” sono ingiustificati e sicuramente eccessivi. In primo luogo, è molto difficile formulare una definizione soddisfacente di monopolio economico. Se c’è solo una farmacia, un barbiere, o un negozio di generi alimentari in un piccolo paese isolato (e questa è una situazione tipica), si potrebbe dire che quella determinata attività goda di un monopolio in quella città. Ognuno può dire di godere di un monopolio delle sue qualità particolari o dei suoi talenti. Yehudi Menuhin ha un monopolio sul suono del suo del violino; Picasso nella produzione dei quadri di Picasso; Elizabeth Taylor sulla sua particolare bellezza e sex appeal; e così via per qualità minori e doti di ogni tipo.
D’altra parte, quasi tutti i monopoli economici sono limitati dalla possibilità di sostituzione. Se il tubo di rame ha un prezzo troppo alto, i consumatori possono sostituirlo con uno d’acciaio o di plastica; se la carne costa troppo, i consumatori possono sostituirla con l’agnello; se la ragazza dei vostri sogni vi respinge, potete sempre sposare qualcun’altra. Così quasi ogni persona, produttore o venditore, può godere di un certo monopolio entro certi limiti interni, ma molto pochi venditori sono in grado di sfruttare tale monopolio al di là di certi limiti esterni. C’è stata una letteratura enorme negli ultimi anni che deplorava l’assenza di una concorrenza perfetta; la stessa cosa la si poteva dire sulla mancanza di un monopolio perfetto. Nella vita reale la concorrenza non è mai perfetta, ma nemmeno il monopolio.
E’ impossibile trovare molti esempi di monopolio perfetto, alcuni economisti si sono spaventati negli ultimi anni evocando lo spettro “dell’oligopolio,” la concorrenza dei pochi. Ma sono giunti alle loro conclusioni allarmanti inserendo nelle loro ipotesi tutti i tipi di accordi immaginariamente segreti o di tacite intese tra le grandi unità della produzione, e deducendone quali sarebbero stati i risultati.
Il solo numero dei concorrenti in un settore particolare può avere poco a che fare con l’esistenza di una concorrenza effettiva. Se la General Electric e la Westinghouse competono efficacemente, se la General Motors e la Ford e la Chrysler competono efficacemente, se la Chase Manhattan e la First National City Bank competono efficacemente, e così via (e nessuna persona che ha avuto esperienza diretta con queste grandi aziende può dubitare che lo facciano in modo dominante), allora il risultato per i consumatori, non solo nel prezzo ma nella qualità del prodotto o del servizio, non solo è buono come quello che verrebbe generato dalla concorrenza atomistica ma molto migliore, perché i consumatori avrebbero il vantaggio di grandi economie di scala e della ricerca e sviluppo su larga scala che le piccole imprese non potrebbero permettersi.
Uno Strano Gioco di Numeri
I teorici dell’oligopolio hanno avuto un’influenza deleteria sulla divisione Americana dell’antitrust e sulle decisioni dei tribunali. I pubblici ministeri ed i tribunali hanno di recente giocato ad uno strano gioco di numeri. Nel 1965, ad esempio, un tribunale distrettuale Federale dichiarò illegale la fusione che ebbe luogo quattro anni prima tra due banche di New York, e doveva essere sciolta. La banca congiunta non era la più grande della città, ma solo la terza più grande; la fusione aveva infatti consentito alla banca di competere più efficacemente con i suoi due concorrenti più grandi; i suoi asset congiunti erano solo un ottavo di quelli rappresentati da tutte le banche della città; e la stessa fusione aveva ridotto il numero di banche separate a New York da 71 a 70. (Vorrei aggiungere che nei quattro anni successivi alla fusione, il numero di filiali bancarie a New York era aumentato da 645 a 698.) Il tribunale concordò con gli avvocati della banca che “la popolazione e le piccole imprese beneficiarono” dalla fusione delle banche. Tuttavia, proseguì il tribunale, “pratiche di per sé innocue, o anche quelle che conferiscono benefici alla comunità, non possono essere tollerate quando tendono a creare un monopolio; quelle che limitano la concorrenza sono illegali, non importa quanto possano essere vantaggiose.”
E’ una cosa strana, per inciso, che politici e giudici ritenessero necessario vietare una fusione esistente al fine di aumentare il numero di banche in una città da 70 a 71, mentre non avevano una tale insistenza sui grandi numeri quando il campo è quello dei partiti politici. La teoria dominante Americana ritiene che solo due partiti politici sono sufficienti per dare all’elettore Americano una vera e propria scelta; e che quando ce ne sono di più si provoca solo confusione, e le persone non risultano realmente servite. Questa teoria politica potrebbe essere applicata anche in ambito economico. Se sono davvero in competizione, sono sufficienti solo due imprese in un settore per creare una concorrenza effettiva.
Prezzi Monopolistici
Il vero problema non è se esiste o meno un “monopolio” in un mercato, ma se vi siano prezzi di monopolio. Possono emergere quando la sensibilità della domanda è tale che il monopolista può ottenere un guadagno più elevato vendendo una quantità minore del suo prodotto ad un prezzo superiore invece di venderlo ad una quantità superiore per un prezzo inferiore. E’ in questo modo che il monopolista può chiedere un prezzo superiore rispetto a quello che sarebbe prevalso in una “concorrenza pura.”
Questa teoria è certamente valida. La vera domanda è: quanto è utile questa teoria per il presunto monopolista (per decidere la sua politica dei prezzi) o per il legislatore, il pubblico ministero, il giudice (per definire le politiche antitrust)? Il monopolista, per essere in grado di sfruttare la sua posizione, deve sapere quale sia la “curva della domanda” per il suo prodotto. Non lo sa; può solo immaginarla; deve cercare di scoprirlo per tentativi. E il monopolista non deve tenere a mente solo la risposta emotiva dei consumatori al prezzo; cosa che susciterà l’apprezzamento o il risentimento del consumatore. Ancora più importante, il monopolista deve considerare l’effetto che hanno le sue politiche di prezzo nell’incoraggiare o nello scoraggiare l’ingresso di nuovi concorrenti nel campo. Potrebbe decidere che una saggia politica a lungo termine sarebbe quella di fissare un prezzo non superiore a quello che secondo lui avrebbe fissato la concorrenza, e forse anche un po’ più basso.
In ogni caso, in assenza di concorrenza, nessuno sa quale sia il prezzo “competitivo.” Pertanto, nessuno sa esattamente quanto possa essere elevato un prezzo di “monopolio” rispetto ad uno “competitivo,” e nessuno può essere sicuro se davvero sia elevato!
Eppure la politica antitrust, negli Stati Uniti almeno, presuppone che i giudici possano sapere quanto un presunto prezzo di monopolio è superiore al prezzo competitivo. Infatti, quando c’è un presunto complotto nel fissaggio dei prezzi, gli acquirenti sono invitati ad avviare pratiche processuali per recuperare tre volte l’importo che sarebbero stati costretti a pagare.
La nostra analisi ci porta alla conclusione che gli stati dovrebbero astenersi, per quanto possibile, da voler stabilire quali siano i prezzi massimi o minimi per qualsiasi cosa. Quando nazionalizzano qualunque servizio — le poste o le ferrovie, la telefonia o il settore energetico — dovranno stabilire dei prezzi e quando concedono concessioni monopolistiche — per le metropolitane, le imprese ferroviarie, telefoniche o energetiche — dovranno prendere in considerazione quali restrizioni di prezzo imporre.
Per quanto riguarda la politica antimonopolistica, qualunque sia la condizione presente anche in altri paesi, posso testimoniare che negli Stati Uniti questa politica non mostra traccia di coerenza. Non è chiara, è discriminatoria, ha effetti retroattivi, è viziata e piena di contraddizioni. Al giorno d’oggi nessuna azienda, anche di dimensioni moderate, può sapere quando verrà accusata di aver violato le leggi antitrust, o perché. Tutto dipende dal pregiudizio economico di un tribunale o di un giudice in particolare.
Vi è immensa ipocrisia su questo argomento. I politici fanno discorsi eloquenti contro il “monopolio.” Poi impongono tariffe e quote di importazione destinate a proteggere il monopolio ed a tenere fuori la concorrenza; accordano concessioni monopolistiche alle imprese di autobus o alle compagnie telefoniche; approvano brevetti monopolistici e diritti d’autore; cercano di controllare la produzione agricola per far emergere prezzi di monopolio. Soprattutto, impongono sindacati di monopolio ai datori di lavoro e li costringono a “contrattare,” e permettono a questi monopoli di imporre le loro condizioni con l’intimidazione e la coercizione fisica.
Ho il sospetto che la situazione intellettuale e il clima politico non siano molto diversi in altri paesi. Trovare una soluzione a questo caos normativo è compito dei giuristi, nonché degli economisti. Propongo un suggerimento modesto: possiamo trarre enorme aiuto dal vecchio common law, che vieta frodi, false dichiarazioni, intimidazioni fisiche e la coercizione. “Lo scopo della legge,” come ci ricordava John Locke nel XVII secolo, “non è quello di abolire o limitare, ma di conservare e ampliare la libertà.” Oggi possiamo affermare che nel campo economico l’obiettivo della legge non dovrebbe essere quello di costringere, ma di massimizzare la libertà dei prezzi e del mercato.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli
Fonte: http://www.rischiocalcolato.it/2013/07/come-dovrebbero-essere-determinati-i-prezzi.html
“Come dovrebbero essere determinati i prezzi?” A questa domanda potremmo offrire una risposta breve e semplice: i prezzi dovrebbero essere determinati dal mercato.
La risposta è abbastanza corretta, ma è necessaria un po’ di elaborazione per risolvere il problema pratico relativo alla presunta saggezza dello stato nel controllare i prezzi.
Cominciamo a livello elementare e diciamo che i prezzi sono determinati dalla domanda e dall’offerta. Se la domanda di un prodotto aumenta, i consumatori saranno disposti a pagare di più per ottenerlo, le loro offerte competitive li obbligheranno a pagare di più e consentiranno ai produttori di produrne di più. Ciò permetterà di aumentare i margini di profitto dei produttori del suddetto prodotto cosa che, a sua volta, tenderà ad attrarre più imprese nella fabbricazione di tale prodotto, e stimolerà le imprese esistenti ad investire più capitale per produrlo. L’aumento della produzione tenderà a ridurre di nuovo il prezzo del prodotto, ed a ridurre il margine di profitto nel produrlo. L’aumento degli investimenti nei nuovi impianti di produzione può ridurre il costo di produzione, oppure — in particolare se ci occupiamo di alcune industrie estrattive come quella petrolifera, dell’oro, dell’argento o del rame — l’aumento della domanda e della produzione potrebbero aumentarne il costo di produzione. In ogni caso, il prezzo avrà un effetto definitivo sulla domanda, sulla produzione e sui costi di produzione poiché questi a loro volta influenzeranno il prezzo. Tutti e quattro — domanda, offerta, costi e prezzi — sono correlati. Un cambiamento in uno porterà cambiamenti negli altri.
Così come la domanda, l’offerta, il costo e il prezzo di ogni singola merce sono tutti correlati, anche i prezzi di tutte le merci sono correlati. Queste relazioni sono sia dirette che indirette. Le miniere di rame possono produrre argento come sottoprodotto; questa è connessione di produzione. Se il prezzo del rame va troppo in alto, i consumatori possono sostituirlo con l’alluminio per molti usi; questa è una connessione di sostituzione. Dacron e cotone sono utilizzati entrambi per le camicie; questa è una connessione di consumo.
In aggiunta a queste connessioni relativamente dirette tra i prezzi, vi è una interconnettività inevitabile tra tutti i prezzi. Un fattore generale di produzione, il lavoro, può essere deviato, nel breve o nel lungo periodo, direttamente o indirettamente, da una linea a qualsiasi altra linea di produzione. Se una merce sale di prezzo, ed i consumatori non sono disposti o in grado di sostituirla con un’altra, saranno costretti a consumare un po’ meno di qualcos’altro. Tutti i prodotti sono in concorrenza per il dollaro del consumatore; e un cambiamento in qualsiasi prezzo influenzerà un numero indefinito di altri prezzi.
Nessun prezzo singolo, pertanto, può essere considerato un elemento isolato. E’ correlato con tutti gli altri prezzi. È proprio attraverso queste interrelazioni che la società è in grado di risolvere il problema estremamente difficile (e sempre mutevole) di come allocare la produzione tra migliaia di beni e servizi in modo che ciascuno di essi possa essere fornito (per quanto possibile) in relazione all’urgenza comparativa della necessità o del desiderio.
Poiché il desiderio e la necessità, la fornitura e il costo, di ogni singola merce o servizio sono in costante evoluzione, anche i prezzi e le relazioni dei prezzi sono in costante evoluzione. Cambiano annualmente, mensilmente, settimanalmente, giornalmente, ogni ora. Le persone che pensano che i prezzi normalmente rimangono fissi, o che possono essere facilmente inchiodati ad un livello “giusto,” potrebbero passare un’ora a guardare il ticker del mercato azionario, o a leggere il rapporto giornaliero sui giornali di quello che è successo il giorno precedente nel mercato dei cambi e nei mercati del caffè, del cacao, dello zucchero, del grano, del mais, del riso e delle uova; del cotone, delle pelli, della lana e della gomma; del rame, dell’argento, del piombo e dello zinco. Scopriranno che nessuno di questi prezzi sta mai fermo. È per questo che i costanti tentativi degli stati di abbassare, alzare, o congelare un particolare prezzo, o congelare l’interrelazione dei salari e dei prezzi dove si trovavano in una certa data, sono destinati ad essere distruttivi qualora non risultassero solamente inutili.
Supportare il Prezzo degli Articoli Esportati
Cominciamo prendendo in considerazione gli sforzi degli stati nel mantenere alti i prezzi, o nel farli crescere. Gli stati cercano di farlo molto spesso per quelle merci che costituiscono un elemento principale delle loro esportazione. Il Giappone lo faceva tempo fa per la seta e l’Impero Britannico per la gomma naturale; il Brasile lo ha fatto (e lo fa ancora periodicamente) per il caffè; e gli Stati Uniti lo fanno ancora per il cotone e il grano. La teoria recita che l’aumento del prezzo di questi prodotti di esportazione può solo fare del bene e non del male alla nazione, poiché aumenterà il reddito dei produttori nazionali a spese dei consumatori stranieri.
Tutti questi sistemi seguono un corso tipico: viene presto scoperto che il prezzo del prodotto non può essere aumentato a meno che non venga ridotta la sua offerta. All’inizio questa situazione può portare a restrizioni nelle superfici in acri, ma il prezzo più alto dà un incentivo ai produttori affinché aumentino la loro resa media per ettaro piantando il prodotto supportato solo sui loro ettari più produttivi, ed impiegando più fertilizzanti, irrigazione, e lavoro. Quando lo stato scopre che sta accadendo tutto ciò, impone controlli quantitativi su ogni produttore basandosi di solito sulla loro produzione precedente in una determinata serie di anni. Il risultato di questo sistema di quote è quello di tenere fuori la concorrenza; bloccare tutti i produttori esistenti nella loro posizione, e quindi mantenere alti i costi di produzione rimuovendo i principali meccanismi ed incentivi per ridurre tali costi. Vengono pertanto impediti aggiustamenti necessari.
Nel frattempo, però, le forze di mercato sono ancora funzionanti nei paesi stranieri e si oppongono a pagare tale prezzo più alto: vengono tagliati gli acquisti della merce sostenuta artificialmente e ricercano altre fonti di offerte. Il prezzo più alto fornisce un incentivo ad altri paesi affinché inizino a produrre la merce sostenuta artificialmente. Pertanto la gomma Britannica portò i produttori Olandesi ad aumentare la produzione di gomma, questo non solo abbassò i prezzi della gomma ma fece in modo che gli Inglesi perdessero definitivamente la loro precedente posizione monopolistica. Inoltre, il piano Britannico suscitò risentimento negli Stati Uniti, il principale consumatore, e stimolò alla fine lo sviluppo vittorioso della gomma sintetica. Allo stesso modo, senza entrare nel dettaglio, il piano del Brasile per il caffè e quello dell’America per il cotone diedero un incentivo ad altri paesi affinché avviassero o aumentassero la produzione di caffè e cotone, e sia il Brasile che gli Stati Uniti persero le loro precedenti posizioni monopolistiche.
Nel frattempo, in patria, tutti questi sistemi richiedono l’istituzione di un elaborato sistema di controlli ed un’intricata burocrazia per formularli e farli rispettare. Devono essere elaborati in quanto ogni singolo produttore deve essere controllato: un esempio di ciò lo si può trovare nel Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. Nel 1929, prima che entrasse in vigore la maggior parte dei controlli sulle colture, c’erano 24,000 persone impiegate presso il Dipartimento dell’Agricoltura. Oggi ce ne sono 109,000. Queste enormi burocrazie, naturalmente, hanno sempre un certo interesse nel trovare ragioni per le quali i controlli che devono far rispettare vengano prolungati ed ampliati. E naturalmente questi controlli limitano la libertà dell’individuo e generano maggiori restrizioni.
Nessuna di queste conseguenze sembra scoraggiare gli sforzi dello stato nell’aumentare i prezzi di alcuni prodotti al di sopra dei loro livelli in un mercato competitivo. Esistono ancora accordi internazionali per il caffè ed accordi internazionali per il grano; una particolare ironia è che gli Stati Uniti sono stati uno degli sponsor nell’organizzazione dell’accordo internazionale per il caffè, anche se i loro abitanti sono i principali consumatori di caffè e quindi le vittime più immediate dell’accordo. Un altro paradosso è che gli Stati Uniti impongono quote di importazione per lo zucchero, le quali fanno necessariamente distinzione tra alcuni paesi esportatori di zucchero e tutti gli altri. Queste quote costringono tutti i consumatori Americani a pagare prezzi più elevati per lo zucchero in modo che una piccola minoranza di produttori Americani di canna da zucchero possa ottenere prezzi più alti.
Non c’è bisogno di sottolineare che questi tentativi di “stabilizzare” o aumentare i prezzi dei prodotti agricoli primari politicizzano ogni decisione sui prezzi e sulla produzione, e creano attriti tra le nazioni.
Tenere Bassi i Prezzi
Passiamo ora a parlare degli sforzi dello stato nell’abbassare i prezzi o come minimo nell’impedire un loro aumento. Questi sforzi si ripetono nella maggior parte dei paesi, non solo in tempo di guerra ma in ogni momento in cui c’è inflazione. Il processo tipico è questo: lo stato, per qualsiasi motivo, segue politiche che aumentano la quantità di moneta e di credito; ciò porta inevitabilmente ad un aumento dei prezzi. Ma tale scenario non è popolare tra i consumatori, pertanto lo stato promette di “contrastare” ulteriori aumenti dei prezzi.
Diciamo che inizia con pane, latte ed altre necessità. La prima cosa che accade, ammesso che possa far valere i suoi decreti, è la diminuzione del margine di profitto nella produzione delle necessità, o la sua scomparsa per i produttori marginali, mentre il margine di profitto nella produzione di beni di lusso rimane invariato o sale più in alto. Questo riduce e scoraggia la produzione delle necessità prese di mira ed incoraggia l’aumento della produzione dei beni di lusso. Ma ciò è esattamente il risultato opposto di quello che avevano in mente i controllori dei prezzi. Se lo stato poi tenta di evitare lo scoraggiamento sopracitato riducendo il costo delle materie prime, del lavoro e di altri fattori di produzione, dovrà iniziare a controllare i prezzi ed i salari in cerchi sempre più ampi finché infine cercherà di controllare i prezzi di tutto.
Ma se cerca di farlo fino in fondo, si ritroverà a cercare di controllare letteralmente milioni di prezzi e miliardi di prezzi. Fisserà rigide allocazioni nonché quote per ciascun produttore e per ogni consumatore. Naturalmente questi controlli dovranno estendersi in modo dettagliato sia agli importatori che agli esportatori.
Se uno stato continua a creare più moneta da un lato, mentre dall’altro tiene rigidi i prezzi, causerà danni immensi. E si noti, inoltre, che anche se lo stato non inflaziona la valuta ma cerca di tenere i prezzi assoluti o relativi proprio lì dove si trovavano, o istituisce una “politica dei redditi” o una “politica salariale” redatta in conformità con qualche formula meccanica, causerà danni sempre più gravi. In un mercato libero anche quando il cosiddetto “livello” dei prezzi non cambia, tutti i prezzi sono in costante evoluzione in relazione gli uni agli altri. Rispondono alle dinamiche dei costi di produzione, dell’offerta e della domanda per ciascun prodotto o servizio.
E questi cambiamenti nei prezzi, sia assoluti che relativi, sono necessari ed auspicabili poiché direzionano il capitale, il lavoro ed altre risorse dalla produzione di beni e servizi che sono meno ricercati verso la produzione di beni e servizi che sono più voluti. Regolano il bilanciamento della produzione rispetto ai cambiamenti incessanti della domanda. Permettono la produzione di migliaia di beni e servizi nella precisa quantità in cui sono socialmente desiderati. Tali quantità relative cambiano ogni giorno, pertanto gli aggiustamenti del mercato e dei prezzi e gli incentivi salariali che portano a questi aggiustamenti devono cambiare ogni giorno.
Il Controllo dei Prezzi Distorce la Produzione
Il controllo dei prezzi riduce, squilibra, distorce e scoordina la produzione. Il controllo dei prezzi diventa progressivamente dannoso con il passare del tempo. Anche un prezzo fisso o una connessione di prezzo che puo’ essere “giusta” o “ragionevole” in un dato giorno, puo’ diventare sempre più irragionevole o impraticabile.
Quello di cui gli stati non si rendono conto è che, per quanto riguarda qualunque merce, la cura per i prezzi elevati è rappresentata da prezzi elevati. Essi conducono l’economia verso i consumi, e stimolano e aumentano la produzione. Entrambi questi risultati aumentano l’offerta e tendono a far abbassare di nuovo i prezzi.
Molto bene, potrebbe dire qualcuno; quindi il controllo dello stato sui prezzi è dannoso in molti casi, ma finora si è parlato come se il mercato fosse governato dalla concorrenza perfetta. Che dire dei mercati monopolistici? Che dire dei mercati in cui i prezzi sono controllati o fissati da grandi imprese? Lo stato non deve intervenire (se non altro per imporre la concorrenza o far emergere il prezzo che sarebbe emerso se ci fosse stata una concorrenza reale)?
I timori della maggior parte degli economisti riguardo i mali del “monopolio” sono ingiustificati e sicuramente eccessivi. In primo luogo, è molto difficile formulare una definizione soddisfacente di monopolio economico. Se c’è solo una farmacia, un barbiere, o un negozio di generi alimentari in un piccolo paese isolato (e questa è una situazione tipica), si potrebbe dire che quella determinata attività goda di un monopolio in quella città. Ognuno può dire di godere di un monopolio delle sue qualità particolari o dei suoi talenti. Yehudi Menuhin ha un monopolio sul suono del suo del violino; Picasso nella produzione dei quadri di Picasso; Elizabeth Taylor sulla sua particolare bellezza e sex appeal; e così via per qualità minori e doti di ogni tipo.
D’altra parte, quasi tutti i monopoli economici sono limitati dalla possibilità di sostituzione. Se il tubo di rame ha un prezzo troppo alto, i consumatori possono sostituirlo con uno d’acciaio o di plastica; se la carne costa troppo, i consumatori possono sostituirla con l’agnello; se la ragazza dei vostri sogni vi respinge, potete sempre sposare qualcun’altra. Così quasi ogni persona, produttore o venditore, può godere di un certo monopolio entro certi limiti interni, ma molto pochi venditori sono in grado di sfruttare tale monopolio al di là di certi limiti esterni. C’è stata una letteratura enorme negli ultimi anni che deplorava l’assenza di una concorrenza perfetta; la stessa cosa la si poteva dire sulla mancanza di un monopolio perfetto. Nella vita reale la concorrenza non è mai perfetta, ma nemmeno il monopolio.
E’ impossibile trovare molti esempi di monopolio perfetto, alcuni economisti si sono spaventati negli ultimi anni evocando lo spettro “dell’oligopolio,” la concorrenza dei pochi. Ma sono giunti alle loro conclusioni allarmanti inserendo nelle loro ipotesi tutti i tipi di accordi immaginariamente segreti o di tacite intese tra le grandi unità della produzione, e deducendone quali sarebbero stati i risultati.
Il solo numero dei concorrenti in un settore particolare può avere poco a che fare con l’esistenza di una concorrenza effettiva. Se la General Electric e la Westinghouse competono efficacemente, se la General Motors e la Ford e la Chrysler competono efficacemente, se la Chase Manhattan e la First National City Bank competono efficacemente, e così via (e nessuna persona che ha avuto esperienza diretta con queste grandi aziende può dubitare che lo facciano in modo dominante), allora il risultato per i consumatori, non solo nel prezzo ma nella qualità del prodotto o del servizio, non solo è buono come quello che verrebbe generato dalla concorrenza atomistica ma molto migliore, perché i consumatori avrebbero il vantaggio di grandi economie di scala e della ricerca e sviluppo su larga scala che le piccole imprese non potrebbero permettersi.
Uno Strano Gioco di Numeri
I teorici dell’oligopolio hanno avuto un’influenza deleteria sulla divisione Americana dell’antitrust e sulle decisioni dei tribunali. I pubblici ministeri ed i tribunali hanno di recente giocato ad uno strano gioco di numeri. Nel 1965, ad esempio, un tribunale distrettuale Federale dichiarò illegale la fusione che ebbe luogo quattro anni prima tra due banche di New York, e doveva essere sciolta. La banca congiunta non era la più grande della città, ma solo la terza più grande; la fusione aveva infatti consentito alla banca di competere più efficacemente con i suoi due concorrenti più grandi; i suoi asset congiunti erano solo un ottavo di quelli rappresentati da tutte le banche della città; e la stessa fusione aveva ridotto il numero di banche separate a New York da 71 a 70. (Vorrei aggiungere che nei quattro anni successivi alla fusione, il numero di filiali bancarie a New York era aumentato da 645 a 698.) Il tribunale concordò con gli avvocati della banca che “la popolazione e le piccole imprese beneficiarono” dalla fusione delle banche. Tuttavia, proseguì il tribunale, “pratiche di per sé innocue, o anche quelle che conferiscono benefici alla comunità, non possono essere tollerate quando tendono a creare un monopolio; quelle che limitano la concorrenza sono illegali, non importa quanto possano essere vantaggiose.”
E’ una cosa strana, per inciso, che politici e giudici ritenessero necessario vietare una fusione esistente al fine di aumentare il numero di banche in una città da 70 a 71, mentre non avevano una tale insistenza sui grandi numeri quando il campo è quello dei partiti politici. La teoria dominante Americana ritiene che solo due partiti politici sono sufficienti per dare all’elettore Americano una vera e propria scelta; e che quando ce ne sono di più si provoca solo confusione, e le persone non risultano realmente servite. Questa teoria politica potrebbe essere applicata anche in ambito economico. Se sono davvero in competizione, sono sufficienti solo due imprese in un settore per creare una concorrenza effettiva.
Prezzi Monopolistici
Il vero problema non è se esiste o meno un “monopolio” in un mercato, ma se vi siano prezzi di monopolio. Possono emergere quando la sensibilità della domanda è tale che il monopolista può ottenere un guadagno più elevato vendendo una quantità minore del suo prodotto ad un prezzo superiore invece di venderlo ad una quantità superiore per un prezzo inferiore. E’ in questo modo che il monopolista può chiedere un prezzo superiore rispetto a quello che sarebbe prevalso in una “concorrenza pura.”
Questa teoria è certamente valida. La vera domanda è: quanto è utile questa teoria per il presunto monopolista (per decidere la sua politica dei prezzi) o per il legislatore, il pubblico ministero, il giudice (per definire le politiche antitrust)? Il monopolista, per essere in grado di sfruttare la sua posizione, deve sapere quale sia la “curva della domanda” per il suo prodotto. Non lo sa; può solo immaginarla; deve cercare di scoprirlo per tentativi. E il monopolista non deve tenere a mente solo la risposta emotiva dei consumatori al prezzo; cosa che susciterà l’apprezzamento o il risentimento del consumatore. Ancora più importante, il monopolista deve considerare l’effetto che hanno le sue politiche di prezzo nell’incoraggiare o nello scoraggiare l’ingresso di nuovi concorrenti nel campo. Potrebbe decidere che una saggia politica a lungo termine sarebbe quella di fissare un prezzo non superiore a quello che secondo lui avrebbe fissato la concorrenza, e forse anche un po’ più basso.
In ogni caso, in assenza di concorrenza, nessuno sa quale sia il prezzo “competitivo.” Pertanto, nessuno sa esattamente quanto possa essere elevato un prezzo di “monopolio” rispetto ad uno “competitivo,” e nessuno può essere sicuro se davvero sia elevato!
Eppure la politica antitrust, negli Stati Uniti almeno, presuppone che i giudici possano sapere quanto un presunto prezzo di monopolio è superiore al prezzo competitivo. Infatti, quando c’è un presunto complotto nel fissaggio dei prezzi, gli acquirenti sono invitati ad avviare pratiche processuali per recuperare tre volte l’importo che sarebbero stati costretti a pagare.
La nostra analisi ci porta alla conclusione che gli stati dovrebbero astenersi, per quanto possibile, da voler stabilire quali siano i prezzi massimi o minimi per qualsiasi cosa. Quando nazionalizzano qualunque servizio — le poste o le ferrovie, la telefonia o il settore energetico — dovranno stabilire dei prezzi e quando concedono concessioni monopolistiche — per le metropolitane, le imprese ferroviarie, telefoniche o energetiche — dovranno prendere in considerazione quali restrizioni di prezzo imporre.
Per quanto riguarda la politica antimonopolistica, qualunque sia la condizione presente anche in altri paesi, posso testimoniare che negli Stati Uniti questa politica non mostra traccia di coerenza. Non è chiara, è discriminatoria, ha effetti retroattivi, è viziata e piena di contraddizioni. Al giorno d’oggi nessuna azienda, anche di dimensioni moderate, può sapere quando verrà accusata di aver violato le leggi antitrust, o perché. Tutto dipende dal pregiudizio economico di un tribunale o di un giudice in particolare.
Vi è immensa ipocrisia su questo argomento. I politici fanno discorsi eloquenti contro il “monopolio.” Poi impongono tariffe e quote di importazione destinate a proteggere il monopolio ed a tenere fuori la concorrenza; accordano concessioni monopolistiche alle imprese di autobus o alle compagnie telefoniche; approvano brevetti monopolistici e diritti d’autore; cercano di controllare la produzione agricola per far emergere prezzi di monopolio. Soprattutto, impongono sindacati di monopolio ai datori di lavoro e li costringono a “contrattare,” e permettono a questi monopoli di imporre le loro condizioni con l’intimidazione e la coercizione fisica.
Ho il sospetto che la situazione intellettuale e il clima politico non siano molto diversi in altri paesi. Trovare una soluzione a questo caos normativo è compito dei giuristi, nonché degli economisti. Propongo un suggerimento modesto: possiamo trarre enorme aiuto dal vecchio common law, che vieta frodi, false dichiarazioni, intimidazioni fisiche e la coercizione. “Lo scopo della legge,” come ci ricordava John Locke nel XVII secolo, “non è quello di abolire o limitare, ma di conservare e ampliare la libertà.” Oggi possiamo affermare che nel campo economico l’obiettivo della legge non dovrebbe essere quello di costringere, ma di massimizzare la libertà dei prezzi e del mercato.
[*] traduzione di Francesco Simoncelli
Fonte: http://www.rischiocalcolato.it/2013/07/come-dovrebbero-essere-determinati-i-prezzi.html
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