DIFFERENZA FRA UNO STATO DEMOCRATICO A MONETA SOVRANA E UN NON STATO DELL’EUROZONA
Molte persone sono ancora ferme a
considerare la sovranità monetaria
come un semplice concetto economico-finanziario, da cui dipendono alcune scelte
di politica monetaria e poco altro: secondo questo approccio generalista, la
sovranità monetaria consentirebbe ai governi di "stampare" moneta creando
inflazione, mentre la mancanza di sovranità monetaria premierebbe la cultura
della stabilità sia fiscale che finanziaria e favorirebbe l’indipendenza delle
banche centrali dai governi. Non è affatto così. La sovranità monetaria, oggi
come oggi, è un vero spartiacque
giuridico-istituzionale fra gli stati che possono ancora ambire ad essere
democratici e quelli che ormai hanno deciso di calpestare le costituzioni
nazionali in nome di non meglio precisati interessi privati e di casta.
Continuare a presentare la sovranità monetaria come un principio retrogrado e nazionalista, superato ormai da più moderni
ed efficienti meccanismi di gestione dei flussi finanziari, fa parte di un
preciso disegno dei regimi oligarchici, che hanno interesse da una parte a
separare i governi dalla loro naturale funzione monetaria e dall’altra a
controllare i maggiori organi di informazione affinchè l’opinione pubblica
venga sempre di più allontanata dalla verità dei fatti. La democrazia dai suoi
doveri egualitari e redistributivi. I cittadini e i lavoratori dai loro diritti
umani e sociali acquisiti nei secoli.
Fonte: http://tempesta-perfetta.blogspot.it/2013/04/differenza-fra-uno-stato-democratico.html
Non è un caso che all’interno
del pastrocchio istituzionale
dell’eurozona, dove la sovranità monetaria dei singoli stati membri è stata
messa al bando per favorire la nascita del comitato
d’affari facente capo alla banca centrale autonoma e indipendente BCE, continuano
a susseguirsi infrazioni su infrazioni delle consolidate norme costituzionali
che da un centinaio di anni almeno tutelano la dignità dei cittadini in Europa.
A settembre scorso siamo rimasti con il fiato sospeso in attesa che la Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe
si pronunciasse sulla legittimità del Meccanismo Europeo di Stabilità, mentre in questi giorni è stata la Corte Costituzionale del Portogallo a
contestare alcune delle misure del piano di austerità del governo perché
ampiamente discriminatorie nei confronti di certi cittadini (in particolare ci
riferiamo ai lavoratori, pubblici e privati, e ai pensionati) a favore di altri
(i maggiori beneficiari del comitato d’affari di Bruxelles: grandi
imprenditori, politici, banchieri, rentiers).
A ottobre prossimo toccherà invece di nuovo alla Corte Costituzionale tedesca
emettere il verdetto di condanna o assoluzione sulle nuove iniziative di
acquisto illimitato di titoli intraprese (almeno a parole) dalla BCE. Nessuna
notizia perviene invece dalla Corte
Costituzionale italiana, che si accapiglia sui cavilli più insignificanti
dei decreti legislativi del governo e del parlamento ma non ha mai visto tutto
ciò che è stato fatto alla nostra tanto osannata carta costituzionale negli
ultimi trent’anni, con l’adesione agli scellerati accordi monetari europei. Da
che mondo è mondo, spostare una trave è sempre stato molto più complesso e
faticoso che giochicchiare con una pagliuzza. Soprattutto se quella trave è
stata messa lì con la compiacenza e il tacito assenso di chi dovrebbe essere
incaricato a spostarla.
Ma siccome noi siamo
diffidenti per natura e non ci fidiamo di quei personaggi oscuri, notoriamente complottisti
e sovversivi, nascosti sotto la toga di giudici e magistrati che vivono asserragliati nelle
alte corti di Germania e Portogallo, abbiamo bisogno di toccare con mano, con i
dati, con i fatti, quali siano effettivamente le differenze fra un paese che
mantiene ancora intatta la propria sovranità monetaria e un altro che invece ha
deciso di calpestarla, in nome della pace e del progresso del mondo (con
particolare riguardo del proprio conto in banca). Sul sito Economonitor, l’economista americano Ed Dolan si è sbizzarrito a confrontare l’andamento di alcuni
indici di prestazione di due paesi agli antipodi in tutti i sensi, come Stati
Uniti e Grecia, per capire in quale maniera i rispettivi sistemi economici e
finanziari hanno reagito alla crisi, prefigurando dei possibili scenari futuri.
Anche perchè alcune bizzarre analisi economiche, condizionate da precise
influenze politiche ed ideologiche, associano spesso il comportamento degli
Stati Uniti a quello della Grecia, paventando ai primi il medesimo destino dei
secondi. Alla fine scopriremo invece che le scelte di entrambi governi in
materia di politica economica sono state pessime, ma un paese, gli Stati Uniti,
riuscirà a salvarsi e ad uscire dalla crisi per il solo fatto di avere
mantenuto la propria sovranità monetaria, mentre l’altro, la Grecia, continuerà
ad essere annientato e distrutto fino a quando i tedeschi non decideranno di
consentirgli di uscire dall’eurozona e di tornare alla propria moneta sovrana
nazionale, la dracma. E tirando le somme, possiamo anche affermare che gli
Stati Uniti avrebbero tutte le
potenzialità e le leve fiscali per essere un normale paese democratico ma a
causa delle solite resistenze delle classi egemoni e dominanti preferiscono non
esserlo fino in fondo; mentre al contrario, la Grecia non può più garantire ai
propri cittadini nessuno dei diritti costituzionali e sta sprofondando nel
limbo degli stati non stati che non
hanno più una loro identità e autonomia, ma sono eterodiretti dall’esterno e da
organismi sovranazionali. Una colonia
insomma, buona solo per essere sfruttata e depredata.
Il fatto più curioso è che
se ci limitassimo ad osservare l’andamento del solo deficit pubblico rapportato al PIL nazionale degli ultimi venti
anni (guarda grafico sotto), noteremmo una notevole similitudine fra ciò che è
avvenuto negli Stati Uniti e in Grecia. In effetti, la squilibrio nei conti
pubblici greci registrato nel 2009 è stato molto più profondo di quello americano,
ma la circostanza che ha cambiato drasticamente le sorti di entrambi i paesi è
come sono stati utilizzati questi ampi deficit governativi e ciò che hanno
messo concretamente in moto. Mentre in Grecia siamo ancora in piena depressione economica, con vertiginosi
crolli del reddito nazionale e una disoccupazione da paese del terzo mondo,
negli Stati Uniti si registrano i primi timidi segnali di inversione del ciclo
e una più sostenuta ripresa degli
investimenti e dell’occupazione. In pratica, se guardiamo soltanto i dati
cumulati, vediamo che sia il debito pubblico della Grecia che quello degli
Stati Uniti è quasi raddoppiato dal 2002 ad oggi (dal 101% al 181% il primo,
dal 57% al 107% il secondo), ma mentre il debito greco è servito a rimborsare oneri finanziari crescenti, per lo più
dovuti alla dinamica inarrestabile degli
interessi da corrispondere ad investitori esteri, quello americano è andato
in parte a finanziare le imprese nazionali, la ricerca, lo stato sociale,
creando i presupposti sia per un
rilancio della domanda interna che delle esportazioni. Una differenza
dovuta appunto al fatto che gli Stati Uniti hanno una propria moneta sovrana,
il dollaro, di cui hanno un pieno
controllo riguardo alle scelte di politica monetaria e fiscale, mentre dal
2002 ad oggi, dal momento dell’ingresso nella zona euro, la Grecia non ha
potuto fare alcuna scelta né nell’uno né nell’altro senso, avendo deciso di
adottare una moneta straniera come
l’euro e di attenersi ai vincoli di
bilancio imposti da Bruxelles.
Fra l’altro, la sovranità
monetaria degli Stati Uniti ha consentito al governo e alla banca centrale di
modulare il tasso di cambio del
dollaro rispetto alle altre valute internazionali per aumentare i margini di
competitività durante il periodo di recessione e dare maggiore impulso alle
esportazioni americane. Invece il tasso di cambio fisso dell’euro rispetto ai
maggiori partners commerciali
europei, non ha consentito alla Grecia di recuperare alcun margine di
competitività e ricevere a monte benefici da una possibile svalutazione
monetaria, scaricando a valle tutti i
costi degli aggiustamenti e degli squilibri nei conti con l’estero sui
lavoratori, sui cittadini, sui tagli alla spesa pubblica, sull’aumento delle
tasse, che se da una parte hanno ridotto le importazioni, dall’altra hanno anche
depresso la domanda interna e il tessuto produttivo locale. E’ vero che il
valore di cambio dell’euro può oscillare rispetto a quello delle altre valute
internazionali, ma è altrettanto vero che questi cambiamenti dipendono da politiche monetarie e commerciali
dell’intera area euro nel suo complesso, le quali ignorano del tutto le
esigenze delle economie più deboli come quella greca e favoriscono al massimo
le economie dei paesi più forti come la Germania.
Per capire meglio questo
meccanismo, possiamo esaminare l’andamento del tasso di cambio effettivo reale,
che è una media ponderata dei tassi di cambio della valuta nazionale rapportata
ai differenziali di inflazione con i maggiori partners commerciali e rappresenta un ottimo indice di
competitività del paese in questione. Dopo aver raggiunto un picco nel 2009, il
dollaro ha deprezzato il suo cambio
reale del 12,7%, cosa che ha aumentato significativamente le esportazioni
americane. Al contrario l’euro greco si
è svalutato soltanto del 5%, privando la produzione interna dello slancio
necessario a far uscire il paese dalla recessione. Questo diverso comportamento
del cambio è associato con le diverse politiche monetarie adottate dalle banche
centrali: la Federal Reserve ha
imboccato una decisa strategia espansiva,
fornendo soprattutto liquidità alle banche con le successive operazioni di quantitative
easing, mantenendo i tassi di interesse praticamente a zero e
sostenendo le manovre fiscali del governo, mentre la BCE ha continuato la sua rigida osservanza alla politica monetaria restrittiva imposta
dai tedeschi, con qualche piccola deviazione necessaria riguardante le due
operazioni LTRO (i cui effetti
calmieranti sul mercato dei titoli di stato avranno una durata ben determinata
e saranno sterilizzati a partire dal 2014, quando i prestiti alle banche
arriveranno a scadenza) e l’intenzione soltanto annunciata ma mai diventata
operativa di acquistare illimitatamente titoli di stato sul mercato secondario
tramite l’OMT.
L’altro vantaggio di avere
una propria moneta sovrana è da ricondurre al minor rischio di default percepito dai mercati, che si traduce in
un più basso tasso di interesse da
corrispondere ai possessori di titoli di stato. Un paese che ha una propria
moneta sovrana non può mai essere costretto a dichiarare default sul rimborso
delle proprie obbligazioni denominate in valuta nazionale, perché
all’occorrenza può emettere tutto il denaro necessario per rispettare le varie scadenze
di pagamento. I problemi possono sorgere soltanto nei casi in cui la moneta
comincia a svalutarsi eccessivamente uscendo dal circuito dei mercati valutari,
gli afflussi di capitali esteri si interrompono e si creano le premesse per una
fiammata inflazionistica interna, mettendo il paese nelle condizioni di
dichiarare default per altra via e chiedere ugualmente il supporto finanziario del FMI.
Questo meccanismo è ampiamente riconosciuto dai mercati, che grazie anche al
ruolo primario del dollaro come moneta
di riserva internazionale, non assegnano agli Stati Uniti tale rischio,
accettando tranquillamente i bassi interessi sui titoli di stato stabiliti
dalla Federal Reserve. Cosa invece, che fin dall’inizio degli incerti programmi
di salvataggio della trojka, i mercati non hanno riconosciuto alla Grecia, la
quale ha in pratica dovuto dichiarare un default
parziale sul pagamento dei propri titoli, uscendo di fatto dal mercato
internazionale dei capitali per eccesso di rischio ed elevato interesse. Nel
grafico seguente si può vedere la drammatica
divergenza fra i tassi di interesse dei titoli di stato USA e della Grecia.
Il solo pagamento degli interessi ha eroso una quota di spesa pubblica corrente
pari al 5,4% del PIL greco, rispetto all’1,7% corrisposto dagli Stati Uniti. La
bassa percentuale del PIL dispersa per il pagamento degli interessi e la
maggiore fiducia degli investitori internazionali ha consentito agli Stati
Uniti un maggiore spazio di manovra per
attuare le sue politiche fiscali.
La politica fiscale ideale di un governo, come già sappiamo, dovrebbe
essere sempre anti-ciclica, nel senso che dovrebbe produrre ampi deficit
governativi, tagli alle tasse e aumenti di spesa pubblica in periodo di
recessione per compensare la caduta dei redditi e creare le premesse per la
ripresa, mentre dovrebbe tendere ai surplus di bilancio durante i periodi di
espansione e di elevata occupazione per evitare un eccessivo surriscaldamento
dell’economia e impedire a monte fiammate inflazionistiche. La politica fiscale pro-ciclica fa invece esattamente il contrario, allungando i
periodi di recessione e rallentando la ripresa con aumenti di tasse e tagli
alla spesa pubblica, e allargando invece i deficit quando l’economia è in
crescita, con conseguente riduzione degli effetti benefici delle politiche fiscali
espansive quando queste diventano davvero necessarie e urgenti.
Tuttavia per stabilire se la
politica fiscale di un paese è pro-ciclica
o anti-ciclica abbiamo bisogno di un
misuratore affidabile, che riesca ad eliminare gli effetti del ciclo economico in corso e altri fattori transitori e non strutturali. Iniziamo con la definizione
del potenziale reale di crescita di
un’economia, che è il livello reale di PIL che si avrebbe se l’intero sistema
economico sfruttasse appieno i suoi fattori
produttivi e seguisse i normali trend
di crescita di lungo periodo. L’output gap è la differenza fra
questo livello potenziale reale e il PIL nominale registrato effettivamente
periodo per periodo. L’output gap è
negativo durante i periodi di recessione, perché i fattori produttivi non sono
sfruttati appieno, e positivo durante le fasi di espansione, perché in certi
casi la domanda aggregata può superare l’offerta aggregata creando fenomeni
inflattivi e i fattori produttivi vengono sfruttati oltre le loro normali
capacità (si pensi per esempio agli straordinari richiesti ai lavoratori o al
funzionamento eccessivo dei macchinari, anche durante gli orari notturni). In un’economia stabile ed efficiente è
chiaro che l’output gap dovrebbe
essere sempre pari a zero. In secondo luogo ricalcoliamo il bilancio pubblico
scorporando gli effetti degli stabilizzatori automatici, quali le
imposte sul reddito (maggiori entrate) e i sussidi di disoccupazione (maggiori
uscite), che si mettono in moto spontaneamente espandendo i surplus durante i
periodi di espansione e i deficit durante le recessioni. In questo modo
otteniamo il saldo strutturale di bilancio, che è l’avanzo o il disavanzo
fiscale che avremmo qualora l’economia avesse un output gap pari a zero.
Decurtando adesso da questo primo saldo il pagamento degli interessi dal lato
della spesa pubblica corrente, ricaviamo il saldo primario strutturale di
bilancio. Se facciamo un’operazione in più, eliminando da questo ultimo saldo
gli effetti delle misure una tantum
come i ricavi derivanti da privatizzazioni e i condoni fiscali, otteniamo il saldo fiscale primario implicito (underlying primary fiscal balance).
Le variazioni del saldo
primario implicito forniscono un quadro di riferimento più preciso sulle
politiche fiscali adottate dal governo. Una corretta politica fiscale anti-ciclica
dovrebbe spostare il saldo primario implicito verso i deficit durante le
recessioni, mentre l'andamento di questa grandezza dovrebbe tendere verso i
surplus quando l’economia attraversa una fase di espansione. Un’errata politica fiscale pro-ciclica agisce invece in modo opposto, perché amplifica i
deficit del saldo primario implicito in periodi di espansione e tende verso i
surplus durante le fasi recessive. Analizzando il grafico riportato sotto, dove
vengono comparati i saldi fiscali
primari impliciti di Stati Uniti e Grecia in relazione al corrispondente
andamento degli output gap, si può
notare che le politiche fiscali dei due paesi sono state entrambe pro-cicliche nell’ultimo decennio e in
particolare nel periodo più profondo della crisi, dal 2009 in poi. I saldi
primari impliciti tendono in entrambi i casi a muoversi verso i surplus quando invece
dovrebbero espandere i loro deficit.
Il
grafico mostra come gli Stati Uniti abbiano mantenuto un output gap positivo per
più di dieci anni, dal 1997 al 2008, compreso il breve periodo di recessione
del 2001. La politica fiscale è stata nel complesso pro-ciclica durante questo decennio, perchè ha cominciato con un
incoraggiante avanzo primario implicito del 3% del PIL e si è conclusa con un deficit
primario implicito del -1,9%. Fra i fattori che hanno contribuito a determinare
questo scarto del 4,9% verso il deficit bisogna includere i ben noti tagli fiscali generalizzati, le spese militari per la difesa
dell’amministrazione Bush e l'espansione della copertura sanitaria del programma Medicare. Segue
un breve periodo di politica fiscale anti-ciclica
dal 2008 fino al 2010, che comincia con gli sgravi fiscali di Bush nella
primavera del 2008 e continua con il pacchetto di stimolo fiscale
dell'amministrazione Obama, approvato dal Congresso nel febbraio 2009.
Le misure
di stimolo fiscale combinate con i tagli alle tasse probabilmente hanno ridotto
la gravità della recessione, ma non sono stati sufficienti a garantire una
ripresa sostenuta dell’economia. Uno dei motivi che hanno causato questo
recupero troppo lento e graduale è da addebitare ancora una volta all’errata politica
fiscale, che è tornata di nuovo a diventare pro-ciclica
nel momento in cui doveva essere espansiva. Il pacchetto di stimolo fiscale e
di spesa pubblica si è concluso nel 2012 e a causa del contorto meccanismo del Fiscal
Cliff, dovuto al mancato accordo del Congresso sull’approvazione del
bilancio federale, porterà ad un nuovo programma
recessivo di tagli e aumenti delle tasse, che avrà l’effetto negativo di ridurre
sostanzialmente il disavanzo primario implicito quando l’economia nel suo
complesso pare essersi stabilizzata al di sotto delle sue prestazioni
potenziali, visto che l’output gap
risulta ancora negativo. Si prevede che questa tendenza verso la politica di
consolidamento fiscale proseguirà per tutto il 2013 e il 2014, anche se gli
Stati Uniti sono ancora lontani da raggiungere un dannoso surplus di bilancio.
A conti fatti, sebbene le pressioni
ideologiche e politiche di certi gruppi di potere abbiano costretto
il
governo americano a perseguire la rigida disciplina di bilancio nel
momento
meno opportuno rallentando indubbiamente la ripresa, ciò non ha ancora
provocato un’improvvisa battuta d'arresto dell’economia come sta
avvenendo altrove, soprattutto
nell’eurozona.
Se
la politica fiscale degli Stati Uniti non è stata sicuramente adeguata e
all’altezza, quella adottata in Grecia,
sulla spinta della trojka, è stata invece un tragico disastro. L’andamento generalmente pro-ciclico della politica fiscale in Grecia era stato simile, ma
ancora più pronunciato rispetto agli Stati Uniti, durante il periodo di
espansione dell’economia greca, dal 2002 al 2007, con l’output gap che balza dal
-1,2% al + 7,4%. Durante questa fase in cui si doveva quantomeno compensare la
crescita con un restringimento della spesa pubblica, la politica fiscale è
stata invece fortemente espansiva, con il deficit primario implicito che
aumenta dal -0,8% al -5,8%. Durante
i successivi due anni, non appena il PIL greco ha cominciato a contrarsi, il
governo ha provato a contrastare questa tendenza con una politica ancora più
espansiva e il deficit primario implicito è aumentato fino al -10.3% del PIL.
Poi sono arrivati i piani di “salvataggio” della trojka, le misure di austerità, il rigore suicida e le cose sono andate
rapidamente in rovina.
Il
momento chiave dell’inizio della fine della Grecia avviene nell’ottobre del 2009, quando con l’insediamento del
nuovo governo, il primo ministro neo-eletto, George Papandreou, è stato costretto ad ammettere che la Grecia
aveva falsato i dati di bilancio per rientrare nei parametri imposti dall'UE,
con il disavanzo stimato per il 2009 che non era affatto del -3,7% del PIL, ma del
-12,5%. Sotto le forti pressioni della trojka, il governo ha intrapreso così un
programma di austerità d'emergenza che ha aumentato le tasse e ridotto la spesa
pubblica. Nonostante le feroci proteste di piazza, già nel 2011 il saldo
primario implicito era tornato in surplus e ha inesorabilmente continuato a salire
fino ad oggi, quando si prevede che raggiungerà il 6,5% del PIL entro il 2013. Non sorprende quindi che tale politica fiscale fortemente pro-ciclica e contraria alle più
elementari norme di buon senso, abbia spinto l'economia reale in caduta libera, con l’output gap previsto per il 2013 al -17.5% del PIL. Praticamente
un’intera economia, un intero paese è fermo, con i fattori produttivi
inutilizzati, con uno spreco
ingiustificato di risorse umane e finanziarie, da sacrificare inutilmente sull’altare
dell’austerità. E circostanza ancora più assurda quanto prevedibile, questo scempio politico e sociale non ha
portato alcun risultato sulla strada tanto invocata del consolidamento fiscale,
dato che il deficit di bilancio corrente per il 2013 dovrebbe attestarsi intorno
al -5,6% del PIL, a causa soprattutto degli oneri finanziari e degli interessi
da corrispondere ai creditori istituzionali o privati.
In
buona sostanza, se dovessimo dare un giudizio complessivo alle politiche
fiscali applicate dai due paesi, nè gli Stati Uniti nè la Grecia meriterebbero
la sufficienza, perchè entrambi i governi hanno condotto politiche sistematicamente pro-cicliche.
Come già anticipato, avendo sia la Grecia che gli Stati Uniti mantenuto ampi
deficit primari impliciti nel periodo di maggiore espansione economica durante
il primo decennio del 2000, si sono trovati poi con un insufficiente spazio di manovra fiscale per condurre un’adeguata
risposta anti-ciclica quando il mondo
intero è precipitato nella crisi finanziaria globale. Ma la vera differenza fra
Grecia e Stati Uniti, che ha determinato gli attuali esiti divergenti, è stata
la mancanza di sovranità monetaria,
che ha costretto il governo greco a dichiarare default parziale sul
debito
pubblico, a pagare interessi esorbitanti sui propri titoli di stato, a
chiedere
un programma di salvataggio esterno, a subire le imposizioni folli della
trojka
e a non potere utilizzare lo strumento della svalutazione monetaria per
rilanciare la propria economia, senza scaricare tutti gli oneri di
aggiustamento sulle spalle dei lavoratori e dei cittadini. Facendo leva
proprio su
questo strumento giuridico-istituzionale prima ancora che
economico-finanziario, in grado da solo di concedere ampia libertà di
manovra delle proprie politiche fiscali e monetarie, gli Stati Uniti
hanno invece potuto superare abbondantemente le prestazioni della
Grecia durante lo stretto passaggio attraverso la crisi finanziaria
globale.
E
fin qui non abbiamo parlato degli effetti
redistributivi delle politiche fiscali e monetarie, che sia negli Stati
Uniti che in Grecia hanno ampliato a dismisura il divario fra i pochi
ricchissimi e la massa indistinta di poveri e disperati. Non dimentichiamo
infatti che malgrado il sostegno diretto all’economia reale, come nel caso
degli aiuti di stato all’industria automobilistica, negli Stati Uniti le
operazioni di quantitative easing di
salvataggio delle banche, degli investitori finanziari e della borsa di Wall
Street sono stati notevolmente maggiori di qualsiasi manovra fiscale espansiva
messa in campo dal governo. Eppure, nonostante questa evidente disparità redistributiva,
la coesione sociale e l’autorevolezza
delle istituzioni democratiche nel continente americano sono state
ampiamente garantite, cosa che non si può dire nell’eurozona, dove i dubbi
sulla legittimità degli apparati
sovranazionali di Bruxelles e delle loro direttive autarchiche continuano a
cozzare con i principi fondamentali delle
costituzioni democratiche e a creare ampie sacche di dissenso e mobilitazione nel popolo vessato. E se proprio vogliamo fare un esempio di come la
sovranità monetaria possa funzionare ancora meglio in senso democratico,
consiglio di rivolgere l’attenzione verso il Giappone e di leggere l’interessante dossier curato da Renato Brunetta (quando si dice che il centrodestra sta superando a sinistra il patetico e inqualificabile centrosinistra italiano!).
In poco più di tre mesi
il nuovo governo guidato dal primo ministro Shinzo Abe ha cambiato il pluriennale trend negativo del paese nipponico, agendo sulla monetizzazione dei
deficit pubblici, favorendo una svalutazione del cambio, costringendo la banca centrale
a mantenere una politica monetaria espansiva di bassi interessi e acquisti
illimitati di titoli sia sul mercato primario che secondario per stimolare il
credito bancario alle imprese produttive, programmando un grande piano di spesa
pubblica e infrastrutture per la ricostruzione delle regioni colpite dallo
tzunami del 2011, stabilendo misure per la competitività, l’innovazione e lo sviluppo
delle aziende, finanziando investimenti necessari a rafforzare la sicurezza e
lo stato sociale, l’occupazione, la sanità, l’istruzione. Questo è in sintesi
il modo più corretto in cui può e deve funzionare una democrazia vera, moderna, efficace, che senza smantellare
l’industria finanziaria e bancaria, la mette invece al servizio del benessere
collettivo. E ribadiamo che questo tipo di democrazia si può costituzionalmente
conseguire soltanto mantenendo la propria sovranità monetaria. Non esiste altro
modo per difendere l’equità, la giustizia sociale, la libertà di impresa, la
capacità del governo di contrastare le crisi economiche e invocare istanze
democratiche dal basso senza queste premesse. Non esiste democrazia senza sovranità monetaria. Tutto il resto è
robaccia varia, arte del compromesso e della mistificazione, difesa ad oltranza
dei privilegi e delle posizioni dominanti, delicati equilibrismi da
professionisti della menzogna. Eurozona insomma.
Fonte: http://tempesta-perfetta.blogspot.it/2013/04/differenza-fra-uno-stato-democratico.html
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