Insulti e minacce: l'8 marzo di Giuliana Sgrena
Giuliana Sgrena, ex inviata del 'Manifesto' e oggi firma di 'Globalist', al centro delle accuse per le opinioni che ha espresso sulla vicenda dei Marò italiani trattenuti in India, con l'accusa di aver ucciso due pescatori.
Articoli tratti da Globalist:
Puttana, troia, il tuo compagno è un pederasta del cazzo, meretrice ideologica, fai schifo, torna in Iraq, dateci la Urru vi ridiamo la Sgrena, peccato che non sei rimasta secca. Il tutto condito con vergogna, infame, era meglio se non ti liberavano, Sgrena di merda. E a seguire. Quello che raccontiamo oggi è un 8 marzo un po' diverso dagli altri: quello di Giuliana Sgrena, già inviata del Manifesto e oggi firma di Globalist che da un po' di giorni (con il "picco" dell'8 marzo) sta ricevendo insulti e minacce. L'accusa: avere espresso sulla vicenda dei due marò italiani un'opinione difforme da quella della maggioranza dei commentatori e della stampa.
Aveva scritto la Sgrena: "Nei confronti dell'India ci consideriamo noi i più forti e quindi pronti a far valere l'obsoleta consuetudine dello zaino o della bandiera (un militare risponde solo al paese di provenienza) e considerare danno collaterale la morte di due pescatori indiani disarmati e senza nessuna velleità piratesca, del resto disarmati non lo eravamo anche noi, a bordo della Toyota Corolla quella notte del 4 marzo 2005, nei confronti dei soldati americani? Se ci siamo permessi di lasciare impunita l'uccisione di Nicola Calipari perché non dovremmo farlo nei confronti di due poveri, sconosciuti pescatori indiani?".
Una opinione che si può condividere e dalla quale si può legittimamente dissentire. Ed in effetti ci sono stati commenti positivi e altri negativi, anche aspramente negativi. Poi, complice un passa parola in ambienti "militareschi" o sedicenti tali, è arrivato lo tsunami di insulti, mezze minacce e quant'altro che ha costretto sia Globalist e l'amministratore della pagina Facebook di Giuliana Sgrena ad intervenire più volte, là dove i commenti avevano una vera e propria rilevanza penale. Estrema ratio, perché la politica della syndication è quella di confrontare opinioni, accettare critiche e confontarsi con critiche anche pesanti. Ma inaccettabili sono gli insulti, le minacce, le offese gratuite. Del resto anche qualificati ambienti militari, per quanto in disaccordo con il commento di Giuliana Sgrena, hanno espresso il loro disappunto e la loro netta presa di distanza da insulti e minacce, soprattutto se provenienti da persone che si presentano come militari o ex militari.
Sicuramente, viste le perverse dinamiche di alcuni aspetti della comunicazione di massa, pur senza creare inutili allarmismi, c'è da capire se dopo una settimana di insulti qualche testa calda si senta autorizzato ad andare oltre. E su questo certamente vigileranno le forze di polizia. Ma questa storia, che parte dalle pagine di Globalist, è bene raccontarla proprio l'8 marzo, nelle ore in cui sta accadendo. Perché non sfuggirà a nessuno, anche dal tono delle offese, il fatto che per molti il fatto che Giuliana Sgrena sia una donna è un'aggravante.
Questo l'articolo di Giuliana Sgrena incriminato:
La legge del più forte. Scontro Italia-India sui marò
Una questione di giurisdizione? Se il fatto è avvenuto in acque internazionali si può facilmente prevedere l'impunità garantita.
La questione dei due marò italiani arrestati in India con l'accusa di aver ucciso due pescatori viene sostanzialmente ridotta a una questione di giurisdizione. Hanno ucciso in acque indiane o internazionali? In quest'ultimo caso sono sotto giurisdizione italiana. Vista la reazione delle autorità italiane questo si può tradurre facilmente in impunità. Ancora una volta si parla di avvertimenti, quali avvertimenti (luci, spari in aria) e contro chi? Avvertimenti che se anche ci fossero stati non sarebbero nemmeno stati compresi da pescatori che nulla avevano a che fare con logiche militari in acque non abituate ad atti di pirateria.
Per di più, non esistono regole d'ingaggio codificate per i militari a bordo delle navi commerciali, mentre la responsabilità dovrebbe essere dello stato, in questo caso italiano, invece la nave è sotto il controllo di civili e quindi del comandante, che però non può dare ordini ai militari.
Il problema della pirateria in mare ha indotto l'Onu a emanare una convenzione che però non prevede l'uso della forza. Tocca dunque ai singoli stati derimere la questione, permettere, come ha fatto l'ex-ministro La Russa, l'imbarco sulle navi battenti bandiera italiana di militari - d'élite come i marò - oppure, come hanno scelto altri paesi, contractors. Come sempre i contractors sfuggono ancora più facilmente a qualsiasi regola.
Il caso dei marò è di estrema gravità perché sancisce il diritto di uccidere chiunque venga sospettato di poter essere un pirata: la guerra si trasferisce dai paesi sotto occupazione alle acque più o meno internazionali, poco importa. Importa solo se c'è uno stato che intende far valere la propria territorialità. Come sempre l'uso delle protezioni armate non esclude i pericoli e aumenta l'uso indiscriminato della forza.
Su questi temi esiste un complesso dibattito a livello internazionale, che non sembra tuttavia infervorare l'Italia se non quando ad essere coinvolti sono i nostri militari. Anche perché siamo fin troppo abituati a rinunciare alla nostra sovranità quando a colpire sono i militari di un paese più forte (soldati Usa nel caso del Cermis, Mario Lozano nel caso Calipari).
Ma nei confronti dell'India ci consideriamo noi i più forti e quindi pronti a far valere l'obsoleta consuetudine dello zaino o della bandiera (un militare risponde solo al paese di provenienza) e considerare danno collaterale la morte di due pescatori indiani disarmati e senza nessuna velleità piratesca, del resto disarmati non lo eravamo anche noi, a bordo della Toyota Corolla quella notte del 4 marzo 2005, nei confronti dei soldati americani? Se ci siamo permessi di lasciare impunita l'uccisione di Nicola Calipari perché non dovremmo farlo nei confronti di due poveri, sconosciuti pescatori indiani?
Il problema della pirateria in mare ha indotto l'Onu a emanare una convenzione che però non prevede l'uso della forza. Tocca dunque ai singoli stati derimere la questione, permettere, come ha fatto l'ex-ministro La Russa, l'imbarco sulle navi battenti bandiera italiana di militari - d'élite come i marò - oppure, come hanno scelto altri paesi, contractors. Come sempre i contractors sfuggono ancora più facilmente a qualsiasi regola.
Il caso dei marò è di estrema gravità perché sancisce il diritto di uccidere chiunque venga sospettato di poter essere un pirata: la guerra si trasferisce dai paesi sotto occupazione alle acque più o meno internazionali, poco importa. Importa solo se c'è uno stato che intende far valere la propria territorialità. Come sempre l'uso delle protezioni armate non esclude i pericoli e aumenta l'uso indiscriminato della forza.
Su questi temi esiste un complesso dibattito a livello internazionale, che non sembra tuttavia infervorare l'Italia se non quando ad essere coinvolti sono i nostri militari. Anche perché siamo fin troppo abituati a rinunciare alla nostra sovranità quando a colpire sono i militari di un paese più forte (soldati Usa nel caso del Cermis, Mario Lozano nel caso Calipari).
Ma nei confronti dell'India ci consideriamo noi i più forti e quindi pronti a far valere l'obsoleta consuetudine dello zaino o della bandiera (un militare risponde solo al paese di provenienza) e considerare danno collaterale la morte di due pescatori indiani disarmati e senza nessuna velleità piratesca, del resto disarmati non lo eravamo anche noi, a bordo della Toyota Corolla quella notte del 4 marzo 2005, nei confronti dei soldati americani? Se ci siamo permessi di lasciare impunita l'uccisione di Nicola Calipari perché non dovremmo farlo nei confronti di due poveri, sconosciuti pescatori indiani?
fonte: Globalist
Commenti
hrfach
ha voluto fare di testa sua e le cose sono andate come tutti sappiamo. Dovrebbe esserle tolto il diritto di esprimere sue opinioni in pubblico.