La verità sulla missione italiana in Afghanistan: non proprio "di pace"...



Le chiamavano missioni di pace: peccato che i dati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale parlino di ben altro. A rivelare l’altra faccia della guerra italiana in Afghanistan è un articolo di Francesco Grignetti pubblicato su La Stampa lo scorso 27 dicembre, che svela il segreto bollettino di guerra del Ministero della Difesa e racconta di una guerra nascosta, testimoni della quale sono le numerose medaglie al valore vinte da alcuni soldati italiani nel Paese, nel corso di operazioni rimaste segrete fino a pochi giorni fa: i documenti, finiti sulla Gazzetta Ufficiale, sarebbero la prova di una storia diversa da quella fornita ufficialmente.
I documenti riportati nell’articolo parlano infatti di blitz, offensive e di numerosi feriti dei quali nessuno, nel nostro Paese, ha mai saputo nulla: perché, ufficialmente, i  nostri soldati non sono in Afghanistan per “fare la guerra”, quanto per proteggere la popolazione civile, sostenere gli interventi di ricostruzione e supportare il governo afghano nel mantenimento della sicurezza. Questo – e non l’attacco o la partecipazione congiunta ad operazioni con le forse speciali statunitensi per abbattere il potere talebano – lo scopo della partecipazione italiana (dal 2002)  alla missione ISAF in Afghanistan.


Eppure, le offensive non sarebbero mancate. Un esempio, risalente al giugno 2009, sarebbe il caso del tenente Lorenzo Ballin, che nell’area di Bala Murghab  (nel nord del Paese), avrebbe conquistato un’altura con la sua compagnia di paracadutisti, meritandosi la medaglia d’argento perché «a seguito di ulteriori attacchi, il suo posto di osservazione veniva colpito e severamente danneggiato. Benché gravemente ferito, proseguiva nell’azione di contrasto, continuando a impartire disposizioni». Un caso simile a quello del capitano Gianluca Simonelli, che durante uno scontro all’avamposto di Bala Baluk, «benché ferito, in condizioni di estrema difficoltà ed esponendo la propria vita a manifesto rischio, continuava in prima persona a impartire le disposizioni che consentivano d’infliggere gravi perdite all’avversario».
E ancora, numerosi sono i casi che vedrebbero coinvolti gli elicotteristi: la medaglia d’oro al colonnello Marco Centritto a Bala Murghab perché a bordo di un “Mangusta” tra il 10 e il 14 giugno 2009 «alla guida dell’aeromobile, benché colpito dal fuoco avversario, con manifesto rischio della propria vita completava le missioni», ma anche la medaglia d’argento alcolonnello Marco Tuzzolino, comandante del 183˚ reggimento paracadutisti, ottenuta perché per la riconquista di un posto di frontiera a Morichak a seguito di uno scontro di circa 48 ore avrebbe condotto «personalmente un elisbarco ad altissimo rischio».
Atti eroici forse, che da un lato testimoniano la durezza quotidiana di una guerra della quale ci si ricorda solo in occasione dei funerali di Stato delle vittime militari che ha causato, ma che dall’altro mettono anche in tutta la sua evidenza una domanda che sorge spontanea: perché continuare a chiamarle missioni di pace?
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