Lo spettro della fame bussa alle nostre porte
A pochi mesi dall’inizio della crisi conclamata, in Grecia ci sono già bambini che soffrono la fame. Nel passato e nel presente della nostra storia sono state deliberatamente uccisi miliardi di persone, per il fatto che il cibo è una “merce” e non un diritto. Oggi stanno iniziando ad uccidere i greci, a quando toccherà all’Itlia? La maggior parte delle persone ritiene che sia impossibile che in Italia, all’inizio del terzo millennio, si possa soffrire la fame. Purtroppo la realtà dei fatti ci porta verso questo infausto destino, alla luce della presente crisi economica, delle manovre finanziarie volte a togliere richezza e potere d’acquisto agli italiani tassandoli sempre di più per ri-pagare il debito, alla luce del conclamato stato di recessione del nostro Paese… A ciò aggiungiamo che, senza ombra di dubbio, in futuro il cibo costerà sempre più caro. Ma il peggio deve ancora arrivare. Secondo la FAO il prezzo del cibo è destinato a raddoppiare da qui al 2030 (quando va bene). Ma perché i prezzi dei prodotti alimentari continuano a salire? Il cibo è sempre più scarso a livello mondiale? La sovrappopolazione del pianeta ha raggiunto livelli insostenibili? L’effetto serra sta distruggendo i terreni coltivabili? Niente di tutto questo, in realtà. La disponibilità di cibo pro capite, per chi ha reddito spendibile, non è mai stata tanto elevata nella storia dell’umanità. Parlavamo di questo all’inizio del 2010, alla presentazione del libro “Diritti al Cibo”, dove si affrontava il problema della “prossima crisi alimentare”. Eccola qui che bussa alle porte d’Europa.
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Circa tre anni fa c’è stata una brusca impennata dei prezzi degli alimenti e lo scoppio di quella che è stata chiamata la “crisi alimentare”, una crisi che ha attraversato tutto il pianeta e che non si è limitata a toccare solo alcune realtà e Paesi in Via di Sviluppo ma anche i cosidetti Paesi Maggiormente Industrialzzati. Ciò non è stato un semplice “episodio”, frutto di una congiuntura particolare, come molti economisti l’hanno definita (gli stessi che hanno negato l’evidenza della crisi economica fino all’ultimo), bensì il sintomo di un problema strutturale che persisteva antecedentemente allo scoppio della crisi stessa.
Fra il 2005 e il 2008, i prezzi mondiali degli alimenti hanno raggiunto i livelli più alti da 30 anni a questa parte, a parte un moderato calo dei prezzi fra il 2008 e 2009, questi hanno continuato ad aumentare nel 2010 e 2011. Dopo l’estate del 2008 i prezzi delle derrate agricole hanno iniziato a scendere parallelamente al prezzo del petrolio; il fatto che sia le commodity agricole che quelle energetiche abbiano avuto nello stesso periodo un andamento similare si può spiegare con il fenomeno delle speculazioni: si sono avute su questi due mercati l’ingresso di nuovi soggetti che operano nell’universo finanziario. Si tratta di soggetti che non sono interessati a trasformare le materie prime ma che intervengono sul sistema finanziario attraverso gli strumenti delle borse merci e delle borse telematiche.
L’economia neoclassica ci insegna che quando c’è tanta domanda e un’offerta inadeguata, i prezzi aumentano, nella realtà dei fatti questa teoria non è applicabile (il modello neoliberista ha fallito a partire dalle sue fondamenta) per quanto accaduto durante la crisi alimentare, in presenza di abbodanza di derrate alimentari i prezzi anziché scendere sono aumentati vertiginosamente. A questo punto, non è possibile prevedere cosa succederà nei prossimi mesi, nei mercati di derrate alimentari si è instaurata una tendenza alla volatilità dei prezzi degli alimenti, che salgono e scendono, ma soprattutto salgono per i consumatori finali e scendono per i produttori di materie prime, gli agricoltori.
Come se non bastasse, la competizione nella destinazione d’uso degli alimenti, in primis i cereali, è sempre più aspra; nel 2008 il volume annuale di cereali prodotti a livello globale (frumento, mais e riso principalmente) è stato di circa 2 miliardi e 200 milioni di tonnellate. Di queste quantità, solo circa un miliardo è stato destinato all’alimentazione diretta delle persone, circa 800 milioni di tonnellate sono state utilizzate nel settore zootecnico per l’alimentazione animale in allevamenti di tipo industriale (allevamenti avicoli, bovini e suini) e, una quota con sempre più elevata, è stata destinata per gli agrocarburanti industriali (detti biocarburanti).
La diversa destinazione d’uso dei cereali per la produzione di bioetanolo, ha ridotto la disponibilità di questi per l’alimentazione animale, i mangimifici quindi hanno dovuto ripiegare verso l’uso di altri cereali, quali frumento ed orzo, che sono stati sottratti dai relativi mercati per l’alimentazione umana. Nel contempo, l’aumento delle superfici di mais coltivate per il bioetanolo ha sottratto terreni fertili soprattutto per la produzione della soia e del frumento, ciò ha creato un “effetto valanga”, cioé un problema che si è ingigantito contribuendo ulteriormente all’innalzamento dei prezzi delle derrate alimentari.
Le fluttuazioni dei prezzi, in particolare quelle al rialzo, rappresentano la maggiore minaccia alla sicurezza alimentare, soprattutto per i più poveri. Secondo la Banca mondiale, nel biennio 2010-2011 l’aumento dei costi degli alimenti ha spinto quasi 70 milioni di persone nella povertà estrema, portando la quota di affamati nel mondo a ben oltre il miliardo. Vogliamo qui ricordare che quando nel mondo c’erano 800 milioni di affamati, nel 2000, i Governanti del mondo si sono posti gli “obiettivi del millennio” fra i quali svettava in prima fila l’obiettivo di ridurre gli affamati del mondo del 50% entro il 2015. Siamo giunti alle soglie del 2012 e gli affamati del mondo sono aumentati del 50%, anziché diminuire… Mancanza di volontà? No, il contrario, la volontà è di affamare il pianeta, perché con il cibo, associato alla fame, si può guadagnare tantissimo.
Come accennato, dopo la bolla speculativa e il crollo delle Borse nel 2007-2008, enormi capitali sono scappati dai prodotti finanziari tradizionali considerati troppo rischiosi e si sono rifugiati in oro e prodotti agricoli, ritenuti più sicuri. Speculare sul cibo significa “scommettere” sul prezzo futuro dei prodotti alimentari, acquistando “futures”, contratti a termine standardizzati per poter essere negoziati facilmente in Borsa, che si basano sull’indicizzazione del prezzo delle derrate. Quando nei mercati finanziari si sparge la voce che il prezzo di un prodotto salirà, tutti si gettano a comperare futures e titoli su quel prodotto, perché al momento della rivendita potranno fare grandissimi guadagni, ma se tutti acquistano quel prodotto il valore e il prezzo del prodotto, appunto, sale. E’ la profezia che si auto-avvera, in un “mercato” che non ha più nessuna connessione con l’economia reale. Ma ciò ha effetti estremamente reali per la vita della gente. Quando nelle Borse si ha una crescita del prezzo del grano, ciò significa enormi profitti per chi ha giocato bene, ma anche rincari drammatici per chi, il pane, lo deve comperare.
Il cibo costituisce una fetta importantissima dei bilanci delle famiglie povere e in Grecia, come in Italia, sempre di più si accresce il numero delle famiglie povere. Ormai sono migliaia le persone, appartenenti ad un’ampia rete di associazioni che si sono riunite per chiedere regole anti-speculazione sui beni alimentari. A tale riguardo abbiamo pubblicato un post su questo sito dal titolo “Sovranità alimentare: no alla speculazione su gli alimenti”.
Uguale e drammatico effetto delle attività specultaive, che alla fine influisce sulla disponibilità e sui prezzi del cibo, è il fenomeno del “land grabbing”, cioè l’accaparramento da parte di multinazionali e corporation di grandi quantità di terra nei paesi più poveri a fini speculativi, tema del quale abbiamo parlato nel post “Fermiamo i ladri di terra”
Come se non bastasse, a preparare un buon terreno speculativo (un caso?) negli ultimi 10 anni le riserve mondiali di alimenti sono state sempre più ridotte, anche in tutta europa, fino a toccare i minimi storici nel 2011. Eppure il rapporto tra livello delle scorte e instabilità dei prezzi è ormai riconosciuto. Scorte ridotte portano a picchi nei prezzi: meno cibo c’è più si può guadagnare speculando.
Su tutto questo bisogna fare due considerazioni importanti. La prima è che la finanza classica con i suoi tradizionali strumenti crea dei flussi finanziari che, sulla carta, equivalgono, sul mercato delle borse, fino a circa 10 volte la sommatoria del prodotto interno lordo di tutti i singoli Stati: l’economia reale del pianeta vale un decimo della economia virtuale della finanza. Questo significa che nel mercato finanziario circola tanta liquidità, tanti titoli, che non corrispondono a denaro reale ma a “tanto mercato” che, nel momento in cui non risulta più remunerativo con gli strumenti finanziari classici, deve travare altri sbocchi. Lo sbocco sul mercato delle materie prime non ha in realtà una dimansione paragonabile al valore del mercato finanziario creato dagli strumenti classici della finanza, è bastato quindi che una minima parte di questa finanza fluisse verso i mercati delle derrate alimentari per farli impazzire e determinare l’innaturale lievitazione dei prezzi. Nei momenti di picco di questa speculazione finanziaria, nel 2007 – 2008, si è arrivati ad un miliardo di dollari al giorno, volumi di denaro virtuale non molto grandi per la finanza classica, che fluivano verso questi “nuovi” mercati, che si sono rivelati sufficentemente grandi per i mercati delle derrate alimentari per condurre alle situazioni di shock che abbiamo visto.
La seconda considerazione che si deve fare è che a causa di quella che viene definita la “deregulation”, l’abbandono progressivo da parte dei poteri pubblici del controllo e governo di questi mercati, ha consentito a qualunque operatore del mercato finanziario di poter intervenire sul mercato dei beni alimentari. Tutto questo ha determinato un mercato sostanzialmente artificiale che inevitabilmente è esploso.
Ma non vi sono solo i soggetti del “mondo finanziario astratto” che spingono per “affamare il mondo”, vi sono anche i soggetti che operano sui “mercati fisici”, cioé quei soggetti che hanno interesse a lavorare realmente le materie prime, e che hanno avuto interesse a giocare sull’aumento dei prezzi; ad esempio le multinazionali, hanno realizzato grandissimi guadagni, sia sul mercato reale con l’immissione di prodotti alimentari a prezzi aumentati nella grande distribuzione ma anche grandi profitti sui propri “pacchetti azionari” con l’aumento della loro quotazione in borsa. Durante il culmine della crisi vi sono parecchie dichiarazioni, ripartabili, di dirigenti e amministratori delegati di queste compagnie che dichiaravano ai propri azionisti che in un momento di grande crisi “le nostre aziende sono riuscite a comportarsi in modo egregio realizzando enormi profitti”.
Nella famosa catena del valore, il meccanismo della concentrazione nelle mani delle multinazionali, della grande distribuzione e nelle mani di investitori finanziari che possono manovrare i prezzi di riferimento del mercato globale e quindi la loro volatilità, toglie ogni potere sovrano ai produttori di materie prime, agli agricoltori. Il risultato di tutto questo è, in primo luogo, la perdita del controllo del mercato interno.
In secondo luogo, nell’attuale crisi economica, assistiamo ovunque, anche nei paesi più ricchi, ad una diminuzione dei consumi. Se guardiamo ai dati delle vendite di beni non alimentari, risulta, ad esempio, che i telefoni cellulari continuano ad essere venduti, tutti cercano di comprarsi un cellulare e il mercato va bene, ma questo non ha paragone se pensiamo al valore complessivo della spesa quotidiana fatta per gli alimenti e la rapportiamo con quella per i telefonini.
I dati relativi al 2009 ci dicono che in Italia, per la prima volta, i consumi alimentari sono diminuiti in valore e in quantità, ciò significa che mangiamo peggio e di meno. Questo accade in un Paese che possiamo definire il cuore dell’agricoltura europea, assieme a Spagna, Francia e Germania. Dobbiamo tenere persente che noi siamo una delle grandi potenze agricole della terra, sia per numeri di produzioni che per il valore delle vendite e il numero di addetti. Per essere uno dei paesi maggiormente industrializzati abbiamo un tasso di addetti agricoli che è ancora molto alto, come pure il numero di aziende è molto elevato.
Nel mondo vi sono 1 milardo e 400 milioni di persone ancora attive nel settore agricolo, nella produzione primaria (contadini, pastori, pescatori) persone che lavorano per produrre alimenti. Il fatto che, a livello globale, ci fossero nei diversi territori, ove più ove meno, persone ancora capaci e in grado di produrre cibo e di destinarlo ai mercati interni è stata, nella crisi alimentare passata, una delle poche ancore di salvezza reali che ha scongiurato una catastrofe umanitaria senza precedenti. L’agricoltura non è solo un fattore determinante per l’economia ma è fondamentale anche per la gestione del territorio, del paesaggio, del mantenimento dei valori culturali ma soprattutto serve a sfamare le persone. Quindi, questi produttori di alimenti non solo sono da ricordare ma anche da valorizzare.
Non era vero che non c’era abbastanza cibo a disposizione, in quel momento di crisi alimentare è risultata lampante l’importanza di avere un sistema agricolo ed alimentare ancorato al territorio, partecipato e presidiato dai produttori di quello stesso territorio con l’appoggio dei consumatori.
La grande distribuzione decide a tavolino i propri tassi di profitto, crea la catena del valore ed impone i prezzi, con i contratti di produzione, tra gli agricoltori e la grande distribuzione non c’è nessuno; non si tratta di disfunzioni che si possono “rammendare”, qui si tratta di affrontare il problema della necessità di cambiare il modello produttivo.
Esiste ancora uno spazio di mediazio e uno spazio di solidarietà. Il primo spazio esiste perché, di fronte al mercato mondiale, nei paesi poveri i contadini, che sono messi peggio di noi, si sono organizzati molto e in qualche modo tentano di resistere attivamente (es. Via Campesina – con anche 15.000 arresti) contrariamente a quanto accade qui, ove le mobilitazioni più forti sono quelle che vanno ancora a caccia dei premi assegnati dalla PAC. Il secondo spazio esiste qui con forme di resistenza alternative, nella solidarietà, con il biologio, gli agriturismi, i guppi di aquisto, le filiere corte, le reti di Economia Solidale; questa è la via concreta, molto realistica, che la nostra agricoltura può prendere e l’unica che può dare soluzioni efficaci di fronte ad un mercato globale che ci sta schiacciando.
Chi resiste nell’agricoltura contadina familiare, con il proprio lavoro, chi si organizza nei mercati locali, è la prova vivente di questa resistenza, è la prova che si può andare in un’altra direzione che probabilmente è l’unica direzione possibile. Purtroppo le politiche pubbliche non sono in grado di seguire e interpretare questo, in primo luogo perché chi queste politiche pubbliche le fa, non discute con coloro che invece fanno l’agricoltura e l’alimentazione, e poi perché queste stesse persone non sono in grado di comprendere che nella resistenza al mercato globale si defila l’agricoltura del futuro.
Quindi non è vero che non si sa che cosa si può fare in questo momento di crisi profonda, non è vero che non si sa come fare a ridurre i costi dei consumi intermedi, ad esempio consentendo di autoriprodurci le sementi, di aumentare l’efficienza ripristinando la fertilità e riducendo l’uso dei concimi chimici, lavorando per il mercato interno, diversificando le produzioni all’interno della stessa azienda e abbandonando la via dell’iperspecializzazione.
Sono tante le soluzioni adottabili che normalmente non fanno parte degli insegnamenti e non vengono studiate all’università: dalle nuove tecniche agronomiche, a quelle economiche, alle nuove costruzioni sociali come il rapporto con i consumatori la dove si presuppone l’utilizzo di monete sociali (es. gli SCEC e i progetti “empori e botteghe”), ri-creando sistemi di cooperazione, di finanziamento e credito che oggi, specificatamente per il settore agricolo, non esistono più, o nuovi sistemi come il co-finanziamento, dove il consumatore diventa co-produttore.
Non possiamo, nell’attuale congiuntura socio-economica-ambientale, aspettare che il cibo, la nostra alimentazione, prima o poi arrivi attraverso una frontiera, dobbiamo garantire prima di ogni altra cosa che il cibo ci venga “da sotto casa”. Questa è Sicurezza e Sovranità alimentare. Si può e si deve fare molto, se non per coloro che nel mondo muoiono di fame, almeno per noi stessi.
La fame è alle porte dell’Europa… A quando un nuovo mondo possibile per scongiurare ciò?
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