“Libertà per il Tibet, basta oppressione cinese”. E dopo il monaco si dà fuoco
Tsewang Norbu, monaco 29enne, è andato sul ponte di una cittadina della provincia del Sichuan, ha cominciato a gridare slogan inneggianti alla libertà del Tibet e al ritorno del Dalai Lama a Lhasa. Poi si è immolato morendo sul posto. I monaci di Nyitso hanno portato via il corpo per celebrare i riti funerari ma i soldati cinesi hanno cercato di strapparglielo via
Il 15 agosto Tsewang Norbu, un monaco 29enne del monastero di Nyitso della prefettura di Kardze (tradizionalmente parte della regione del Tibet conosciuta come Kham) è morto dopo essersi dato fuoco per protesta contro il governo cinese.
Verso mezzogiorno Tsewang è andato sul ponte nel centro della cittadina di Tawu, nella prefettura autonoma di Kardze della provincia del Sichuan. Ha cominciato a gridare slogan inneggianti alla libertà del Tibet e al ritorno del Dalai Lama a Lhasa, la ex capitale del Tibet, che fino al 1951 era uno stato sostanzialmente autonomo e indipendente. Dopo una decina di minuti ha bevuto petrolio, se ne è cosparso il corpo e si è dato fuoco, trasformandosi immediatamente in una torcia umana e morendo subito dopo.
Tsering Woeser, la poetessa e blogger buddhista di padre cinese di etnia han e madre tibetana, che vive a Beijing e tiene un blog considerato una preziosa fonte di informazione indipendente sulla Cina, ha scritto su Twitter: “Tsewang ha lanciato dei volantini e gridato slogan, chiedendo libertà per il Tibet e il ritorno di Sua Santità il Dalai Lama”. E ancora: “Dopo dieci minuti si è immolato sulla strada principale per Beijing ed è morto sul posto”. Stando alla Woeser, i monaci di Nyitso hanno portato via il corpo per celebrare i riti funerari ma i soldati cinesi hanno cercato di strapparglielo via.
Sembra che il gesto disperato di Tsewang sia dovuto alle nuove restrizioni politiche e religiose imposte dalla Cina nella regione, e in particolare nella contea di Tawu. Il 16 marzo scorso si era dato fuoco Phuntsog, un monaco di 20 anni del monastero di Kirti, nella contea di Amdo Ngaba a circa 200 chilometri da Tawu, per commemorare la manifestazione del 2009 di monaci e laici durante la quale, a causa della repressione, molti erano stati uccisi. Fra questi una donna incinta, una studentessa di 16 anni e un bambino di 5. Da allora le autorità cinesi hanno dato il via a una nuova ondata di arresti, controlli e sessioni di “rieducazione” forzata.
Il 6 luglio scorso oltre 10.000 persone fra laici e monaci si sono riunite per celebrare il 76esimo compleanno del Dalai Lama. La macchina repressiva si è fatta subito sentire. I rituali previsti non sono stati portati a compimento e, come punizione per aver indetto l’evento, al monastero di Nyitso è stata tagliata l’acqua corrente e l’elettricità per una settimana. Un episodio ancora più grave è accaduto il 10 agosto quando Thinlay, un prigioniero politico tibetano arrestato nell’aprile 2009 per aver distribuito manifestini inneggianti la libertà del Tibet, è morto a causa delle torture subite durante sette mesi di detenzione. In questo periodo sembra sia stato torturato e picchiato duramente anche sulla testa e abbia riportato danni che gli hanno causato gravi disturbi psicologici, di cui ha continuato a soffrire fino alla morte.
Specie da quando è scoppiata la protesta di Lhasa del 2008, i monasteri buddhisti maschili e femminili della Regione Autonoma del Tibet devono affrontare restrizioni delle libertà civili via via maggiori da parte delle autorità cinesi. Chemi Tenzin, un monaco nativo di Tawu appartenente al monastero di Ganden, uno dei tre grandi centri di studio del buddhismo tibetano della scuola Gelugpa distrutto completamente nel 1959 e ristabilitosi in Karnataka, nell’India meridionale, ha detto che “le autorità cinesi hanno tagliato acqua ed elettricità ai monasteri di Nyitso sin dalle celebrazioni per il compleanno del Dalai Lama. Dopo la morte di Tsewang la Cina ha intensificato i controlli e ha circondato il monastero, mettendo i monaci in una situazione di grave pericolo”.
L’agenzia ufficiale del governo cinese, Xinhua, ha riportato che un monaco si è dato fuoco ma “non è chiaro perché si sia bruciato”. Stephanie Brigden, direttore dell’organizzazione Free Tibet di Londra, ha dichiarato: “Siamo molto preoccupati per quello che potrebbe succedere a Tawu. Nelle ultime ore le linee telefoniche sono state tagliate, gli Internet caffè sono stati chiusi […] el’esercito ha circondato il monastero”.
Anche il neo primo ministro del governo del Tibet in esilio Lobsang Sangay ha dichiarato su The New York Times, in un editoriale dal signficativo titolo “Il mito del paradiso socialista”, che la morte di Tsewang Norbu, che ha definito “la seconda auto immolazione di quest’anno”, è “una testimonianza sulla continua repressione della Cina e sulla continua resistenza dei tibetani.” Ha detto di non incoraggiare le proteste ma che è suo “sacro dovere sostenere i coraggiosi compatrioti senza voce”.
Il suicidio tramite il fuoco è una pratica storicamente attestata in Asia ed è considerata una testimonianza resa per attrarre l’attenzione su un certo problema e, soprattutto, per punire moralmente chi ha costretto la persona a commettere quel gesto. Tsewang ha certamente attirato l’attenzione sulla situazione dei tibetani in Cina ma, stando al rapporto 2011 di Amnesty International, i diritti umani e civili di tibetani, uiguri, mongoli e altre minoranze etniche del paese sono sistematicamente violati. Chi sa se il governo cinese si sente moralmente colpevole del sacrificio di Tsewang.
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