Morti sul lavoro: il bollettino di guerra si aggrava in silenzio
La guerra quotidiana di chi esce la mattina di casa per andare a compiere il proprio dovere e, qualche volta, non vi fa ritorno. L’impressione, terribile e meschina, è che ormai parlare di morti sul lavoro sia diventato demagogico, retorico e ridondante. Che ormai non faccia quasi più notizia parlare di “morti bianche”; che locuzione ipocrita, come se la morte avesse un colore distintivo. Semplicemente ci sono contesti in cui morire è assurdo e innaturale: come morire al volante della propria auto mentre si viaggia con la famiglia, come morire cadendo da un’impalcatura mentre si sta tirando su un muro. Quella di due giorni fa, 22 luglio, è stata una giornata sanguinosa: due morti in Piemonte, uno in Toscana, uno in Trentino (aveva 21 anni) ed uno in Basilicata.
Le statistiche di metà anno ci costringono a tenere gli occhi fissi su questo dramma che si consuma quotidianamente e non accenna a smettere. E sono cifre sconcertanti: secondo l’Osservatorio di Bologna per le morti sul lavoro, un organismo indipendente, dall’inizio dell’anno a oggi si sono verificati 345 incidenti mortali sui luoghi di lavoro, che salgono a 650 se si contano quelli incorsi a quanti si stavano recando a lavorare. Nel 2010 erano 292, il 14,8% in meno. Il triste primato spetta all’agricoltura, seguita dall’edilizia, ed aggiunge l’Osservatorio: “Moltissimi morti sono dovuti alle condizioni climatiche, soprattutto per le categorie che svolgono i lavori all’aperto quali l’edilizia, l’agricoltura, la manutenzione stradale, l’autotrasporto ecc… Per queste categorie con un po’ di buona volontà da parte di tutti è possibile riuscire ad incidere sul fenomeno aumentando la prevenzione ed allarmando le categorie quando ci sono maggiori rischi legate alle condizioni del tempo in determinate province del paese”.
Altra statistica, altra fonte, stesso risultato. Secondo il dettagliato rapporto stilato da Vega Engineering, ditta veneta che si occupa di sistemi di sicurezza sul lavoro, le vittime nel primo semestre del 2011 sono state 255: 218 nello stesso periodo dello scorso anno, in aumento del 17%. Interessante notare anche come l’incremento maggiore sia verificato nel mese di gennaio (25 morti nel 2010, 50 nel 2011), e che in generale i primi mesi dell’anno siano sempre più a rischio per chi lavora nell’agricoltura e nelle costruzioni. Lavori da svolgere all’aria aperta, senza badare troppo alle condizioni climatiche e dai pericoli che ne derivano: quanto già segnalato dal rapporto dell’Osservatorio di Bologna.
Palma nera anche qui per agricoltura, pesca, silvicoltura, caccia con il 38% dei decessi totali; seguono sempre le costruzioni con il 23,1%.
Altro dato sconcertante che emerge dal rapporto Vega Engineering è quello sulle cause degli infortuni mortali: il 24,7% delle volte si tratta di una caduta dall’alto. Semplice, frequente, letale, e magari nemmeno troppo difficile da prevenire. Segue con il 22% il ribaltamento di un veicolo/mezzo in movimento, e la caduta di gravi e lo schiacciamento al 20%; in percentuali minori, investimento, contatto con mezzi o con organi lavoratori in movimento. Tutte fatalità dalla dinamica ripetitiva, per le quali non sarebbe difficile prevedere misure di sicurezza finalmente efficaci e, soprattutto, trasversalmente diffuse. La maggioranza di questi lavoratori, il 45%, ha tra i 40 ed i 59 anni; il 12% sono stranieri, di cui il 40% di nazionalità romena.
E tutto ciò va anche considerato alla luce del tracollo del mercato del lavoro avvenuto nell’ultimo anno. Se le morti sul lavoro si erano mantenute costanti nel biennio 2008-2010, negli ultimi mesi si lavora di meno ma a ritmi forsennati. Competitività è la parola d’ordine, e allora riduciamo le pause anche per lavori usuranti (vedi le fabbriche), facciamo più straordinari, lavoriamo anche quando le condizioni contingenti non lo consentirebbero, per essere più competitivi. E la sicurezza va a farsi benedire.
Tutto ciò, ovviamente, al netto dei 3 milioni, si stima, di lavoratori “in nero”. Quelli che non esistono per nessuno, per i quali denunciare un infortunio e godere magari dei giorni di convalescenza retribuiti che gli spetterebbero è pura utopia. E’ assurdo che la denuncia di questi casi debba partire dal lavoratore che, si sa, è l’anello debole della catena. Ed al di là del dramma umano, anche il lato economico della questione ci fa capire come un paese che si ritiene “civilizzato” non possa essere marchiato da simili cifre. Come emerge da un libro-inchiesta della giornalista Nunzia Penelope, gli infortuni (mortali e non) sui posti di lavoro ci costano ogni anno 43 miliardi. Se con gli stessi soldi si incentivassero le imprese virtuose, sanzionando pesantemente gli imprenditori negligenti e magari recidivi? Troppa fatica diventare un paese civile.
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