Moby Prince, l'orrore dei morti venti anni dopo
Non credo verrà mai fatta luce attraverso quella nebbia che la sera del 10 aprile 1991 avvolgeva il mare davanti a Livorno. Come per Ustica, la strage del 2 agosto e piazza Fontana, anche per i 140 morti del più grave disastro della marineria italiana, uomini donne e bambini che quella sera si imbarcarono sul traghetto Moby Prince diretti a Olbia, non ci sarà mai giustizia. A scacciare le ombre ci ha provato qualche anno fa anche un magistrato che stimo molto, Antonio Giaconi, ma si è dovuto arrendere persino uno come lui che è un mastino. Posso raccontarvi quello che vidi io quella notte e nei giorni successivi. Per ricordare.
Vissi quei momenti da giornalista, con la macchina fotografica al collo, nonostante i miei 22 anni che, da allora, cambiarono aspetto. Ero alla finestra di casa, ad Antignano, periferia della città, guardavo l’orizzonte come spesso mi capita nelle pause di riflessione. In mare c’era appunto foschia, ma a un certo momento il fumo riusciva a distinguersi. E non era nebbia. Mio padre allora era condirettore del Tirreno e, naturalmente, era al giornale. Provai a chiamarlo, ma l’interno mi dava occupato. Allora feci il 401141, che era il numero del centralino, e mi feci passare Elisabetta Arrighi, cronista di razza, certo che avrei avuto risposte. Mi disse che probabilmente era una bettolina andata a fuoco, che lei stava scappando in capitaneria perché in quelle informazioni che le avevano dato c’era qualcosa che non le tornava.
Scoprii più tardi quello che era successo. Altro che bettolina, aveva ragione Arrighi a porsi dubbi: un traghetto era finito contro la petroliera Agip Abruzzo, la prua aveva centrato la cisterna 7, carica di 2700 tonnellate di petrolio Iranian Light e gli aveva riversato addosso greggio e fiamme. Più tardi mio padre mi chiamò, mi disse di andare al porto con la macchina fotografica.
Da lì in poi la consapevolezza di qualcosa di enorme, struggente. Ma niente ancora di quello che avrei visto in seguito. Alla capitaneria, insieme a un collega, andammo negli uffici degli ormeggiatori, i primi ad accorgersi di quello che era successo davvero. Mi ricordo le loro lacrime, la tensione, finirono quasi per menarsi tra di loro in quel caos infernale. Al porto incontrai un altro collega, Furio Domenici. Mi disse che aveva parlato con un amico della Labromare (ditta privata che lavora insieme ai vigili del fuoco per spegnere le fiamme del Moby) e che il giorno successivo saremmo saliti su quella nave a vedere cosa fosse accaduto.
Fummo gli unici due giornalisti a salire sul Moby, io e Domenici. Travestiti (allora il mestiere si faceva così) da operai addetti alla bonifica di quel restava del traghetto. Io ero un ragazzino, Domenici ne aveva già viste di cotte e di crude, aveva seguito il terremoto in Irpinia, le stragi di Natale, i delitti del mostro di Firenze. Ma quando arrivammo al salone De Luxe della nave restammo di pietra. Entrambi. Avevamo delle maschere a coprirci il volto, ma quell’odore di bruciato, di carne umana bruciata, me lo porto ancora dietro.
La nave era ancora rovente, e le suole degli stivali che ci aveva dato Ghigo Cafferata della Labromare ci si scioglievano sotto i piedi. E poi quel salone. Fatto di brandelli che potevano ricondurre a essere umani, ma che non avremmo riconosciuto. Forse qualcosa di simile si trova nelle rarissime foto di forni crematori. Sì, credo di aver visto da vicino qualcosa di molto simile alla guerra. Anche se il ricordo che mi porto dentro è l’odore. Delle 140 persone non restava niente, si erano sciolte in un tentativo di fuga, forse, ma che non abbiamo mai saputo. Si dice che i passeggeri vennero tutti radunati nel salone mentre la nave prendeva fuoco e in attesa dei soccorsi. Uno degli elementi verosimili di tutta questa tragedia. Tutti particolari che non sapemmo allora e non sappiamo con certezza neanche oggi.
Perché nessuno fuggì da quel salone che era diventato una trappola? Come fece a salvarsi una sola persona? Neanche questo si può accertare, solo un racconto di quel mozzo, Alessio Bertrand, sempre molto confuso. Fu colpa della foschia? Improbabile. Ma soprattutto una cosa: perché i soccorsi partirono in ritardo. Alle 22.25 il marconista del Moby lancia il May Day attraverso una ricetrasmittente portatile, non era in sala radio, ma i soccorsi cercavano l’Agip Abruzzo, il Moby se lo persero. Lo trovarono un’ora e dieci minuti più tardi e quasi per caso.
Il pm Giaconi qualche anno fa si è fatto mandare immagini satellitari, si è riletto le trascrizioni dei messaggi tra l’avvisatore marittimo, la nave Agip Abruzzo, le comunicazioni sul canale vhf 16 della Moby. Non ne è uscito nulla di decisivo. Il fascicolo è stato archiviato.
Sappiamo che in quello specchio di mare c’erano manovre di navi americane che caricavano armi daCamp Darby, come avviene anche oggi con una certa frequenza e grande mistero, visto che le autorità della base non sono tenute ad avvisare dei loro spostamenti. C’era un traffico inconsueto quella notte in porto, e soprattutto c’era una nave, la Theresa, che misteriosamente si allontanò subito dalla zona dell’incidente.
Ma sono solo ipotesi, supposizioni. C’era una partita in tv quella sera e il comandante del Moby,Ugo Chessa, senza possibilità di difendersi, visto che si trovava a prua e fu sicuramente tra i primi a morire, venne accusato anche per quello: i dietrologi sostengono che l’equipaggio inserì presto il pilota automatico per fare i loro comodi. Fantasiosa anche questa come ricostruzione.
E ancora: quella bettolina, che eppure era in quello specchio d’acqua c’era. Che fine fece? Niente, non lo sappiamo. Io ricordo che le fotografie non riuscii a farle. Ne ho scritto più volte, anni dopo, di quell’incidente, ma sempre con uno stato d’animo confuso dai ricordi. La stessa confusione che mi accompagnò quando scesi dalla Moby, nei giorni a seguire, quando arrivarono i parenti delle vittime e venne allestita una sala dove ricomposero quello che restava dei corpi. Anelli, catenine, orecchini. Impronte dentali. Niente, in pratica.
Quella nebbia si è portata via la Moby e quelle persone che partivano, chi per le vacanze di Pasqua, chi per tornarsene a casa.
Per una serie di coincidenze ho viaggiato con la Moby decine e decine di volte, sulla stessa rotta. Ho passato anni a tentare di ricostruire quello che accadde, tra carte vecchie e nuove, a parlare coi figli del comandante Chessa. A tentare una spiegazione di quello che avvenne. Non sono mai arrivato a nessuna conclusione. Anche perché quando si aprì il processo (se non sbaglio, parte dell’inchiesta fin nelle mani di un magistrato arrestato anni dopo per una corruzione) ero via da Livorno e non lo seguii.
Ogni anno il 10 aprile torno al porto, alla Darsena Toscana, butto in mare un fiore. Solo per ricordare, consapevole che quelle 140 persone non avranno giustizia. E se per piazza Fontana e le stragi di Natale qualche vaga spiegazione me la sono data, ho capito che alcuni apparati dello Stato non possono parlare, per la Moby no. Non sono riuscito ad arrivare a nessuna conclusione. Non sono arrivato a capire perché coloro che sanno – e ci sono – continuino a non raccontarla giusta.
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Vissi quei momenti da giornalista, con la macchina fotografica al collo, nonostante i miei 22 anni che, da allora, cambiarono aspetto. Ero alla finestra di casa, ad Antignano, periferia della città, guardavo l’orizzonte come spesso mi capita nelle pause di riflessione. In mare c’era appunto foschia, ma a un certo momento il fumo riusciva a distinguersi. E non era nebbia. Mio padre allora era condirettore del Tirreno e, naturalmente, era al giornale. Provai a chiamarlo, ma l’interno mi dava occupato. Allora feci il 401141, che era il numero del centralino, e mi feci passare Elisabetta Arrighi, cronista di razza, certo che avrei avuto risposte. Mi disse che probabilmente era una bettolina andata a fuoco, che lei stava scappando in capitaneria perché in quelle informazioni che le avevano dato c’era qualcosa che non le tornava.
Scoprii più tardi quello che era successo. Altro che bettolina, aveva ragione Arrighi a porsi dubbi: un traghetto era finito contro la petroliera Agip Abruzzo, la prua aveva centrato la cisterna 7, carica di 2700 tonnellate di petrolio Iranian Light e gli aveva riversato addosso greggio e fiamme. Più tardi mio padre mi chiamò, mi disse di andare al porto con la macchina fotografica.
Da lì in poi la consapevolezza di qualcosa di enorme, struggente. Ma niente ancora di quello che avrei visto in seguito. Alla capitaneria, insieme a un collega, andammo negli uffici degli ormeggiatori, i primi ad accorgersi di quello che era successo davvero. Mi ricordo le loro lacrime, la tensione, finirono quasi per menarsi tra di loro in quel caos infernale. Al porto incontrai un altro collega, Furio Domenici. Mi disse che aveva parlato con un amico della Labromare (ditta privata che lavora insieme ai vigili del fuoco per spegnere le fiamme del Moby) e che il giorno successivo saremmo saliti su quella nave a vedere cosa fosse accaduto.
Fummo gli unici due giornalisti a salire sul Moby, io e Domenici. Travestiti (allora il mestiere si faceva così) da operai addetti alla bonifica di quel restava del traghetto. Io ero un ragazzino, Domenici ne aveva già viste di cotte e di crude, aveva seguito il terremoto in Irpinia, le stragi di Natale, i delitti del mostro di Firenze. Ma quando arrivammo al salone De Luxe della nave restammo di pietra. Entrambi. Avevamo delle maschere a coprirci il volto, ma quell’odore di bruciato, di carne umana bruciata, me lo porto ancora dietro.
La nave era ancora rovente, e le suole degli stivali che ci aveva dato Ghigo Cafferata della Labromare ci si scioglievano sotto i piedi. E poi quel salone. Fatto di brandelli che potevano ricondurre a essere umani, ma che non avremmo riconosciuto. Forse qualcosa di simile si trova nelle rarissime foto di forni crematori. Sì, credo di aver visto da vicino qualcosa di molto simile alla guerra. Anche se il ricordo che mi porto dentro è l’odore. Delle 140 persone non restava niente, si erano sciolte in un tentativo di fuga, forse, ma che non abbiamo mai saputo. Si dice che i passeggeri vennero tutti radunati nel salone mentre la nave prendeva fuoco e in attesa dei soccorsi. Uno degli elementi verosimili di tutta questa tragedia. Tutti particolari che non sapemmo allora e non sappiamo con certezza neanche oggi.
Perché nessuno fuggì da quel salone che era diventato una trappola? Come fece a salvarsi una sola persona? Neanche questo si può accertare, solo un racconto di quel mozzo, Alessio Bertrand, sempre molto confuso. Fu colpa della foschia? Improbabile. Ma soprattutto una cosa: perché i soccorsi partirono in ritardo. Alle 22.25 il marconista del Moby lancia il May Day attraverso una ricetrasmittente portatile, non era in sala radio, ma i soccorsi cercavano l’Agip Abruzzo, il Moby se lo persero. Lo trovarono un’ora e dieci minuti più tardi e quasi per caso.
Il pm Giaconi qualche anno fa si è fatto mandare immagini satellitari, si è riletto le trascrizioni dei messaggi tra l’avvisatore marittimo, la nave Agip Abruzzo, le comunicazioni sul canale vhf 16 della Moby. Non ne è uscito nulla di decisivo. Il fascicolo è stato archiviato.
Sappiamo che in quello specchio di mare c’erano manovre di navi americane che caricavano armi daCamp Darby, come avviene anche oggi con una certa frequenza e grande mistero, visto che le autorità della base non sono tenute ad avvisare dei loro spostamenti. C’era un traffico inconsueto quella notte in porto, e soprattutto c’era una nave, la Theresa, che misteriosamente si allontanò subito dalla zona dell’incidente.
Ma sono solo ipotesi, supposizioni. C’era una partita in tv quella sera e il comandante del Moby,Ugo Chessa, senza possibilità di difendersi, visto che si trovava a prua e fu sicuramente tra i primi a morire, venne accusato anche per quello: i dietrologi sostengono che l’equipaggio inserì presto il pilota automatico per fare i loro comodi. Fantasiosa anche questa come ricostruzione.
E ancora: quella bettolina, che eppure era in quello specchio d’acqua c’era. Che fine fece? Niente, non lo sappiamo. Io ricordo che le fotografie non riuscii a farle. Ne ho scritto più volte, anni dopo, di quell’incidente, ma sempre con uno stato d’animo confuso dai ricordi. La stessa confusione che mi accompagnò quando scesi dalla Moby, nei giorni a seguire, quando arrivarono i parenti delle vittime e venne allestita una sala dove ricomposero quello che restava dei corpi. Anelli, catenine, orecchini. Impronte dentali. Niente, in pratica.
Quella nebbia si è portata via la Moby e quelle persone che partivano, chi per le vacanze di Pasqua, chi per tornarsene a casa.
Per una serie di coincidenze ho viaggiato con la Moby decine e decine di volte, sulla stessa rotta. Ho passato anni a tentare di ricostruire quello che accadde, tra carte vecchie e nuove, a parlare coi figli del comandante Chessa. A tentare una spiegazione di quello che avvenne. Non sono mai arrivato a nessuna conclusione. Anche perché quando si aprì il processo (se non sbaglio, parte dell’inchiesta fin nelle mani di un magistrato arrestato anni dopo per una corruzione) ero via da Livorno e non lo seguii.
Ogni anno il 10 aprile torno al porto, alla Darsena Toscana, butto in mare un fiore. Solo per ricordare, consapevole che quelle 140 persone non avranno giustizia. E se per piazza Fontana e le stragi di Natale qualche vaga spiegazione me la sono data, ho capito che alcuni apparati dello Stato non possono parlare, per la Moby no. Non sono riuscito ad arrivare a nessuna conclusione. Non sono arrivato a capire perché coloro che sanno – e ci sono – continuino a non raccontarla giusta.
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