Mercato immobiliare ancora in alto mare.

L'allarme nell'indagine svolta dalla Commissione ambiente della Camera: "Situazione grave per compravendite, accesso al mutuo, sfratti e offerta di abitazioni in affitto"

"Tre anni di mercato in flessione hanno prodotto il dato allarmante di uno stock di 'giacenze' che ha ampiamente superato i 100 mila alloggi e oggi si attesta intorno ai 120 mila appartamenti invenduti". E' l'allarme lanciato dalla Commissione ambiente della Camera nel documento conclusivo dell'Indagine conoscitiva sul mercato immobiliare, presentato oggi.

Nel corso di varie audizioni, la Commissione spiega di aver raccolto "dati negativi" che sembrano "accentuare gli elementi di preoccupazione per il permanere di una tendenza negativa nel settore delle costruzioni che, a differenza di altri settori industriali, non sembra avere ancora toccato il punto minimo della caduta ciclica, e ha continuato a mostrare segnali che restano sfavorevoli".

La crisi, ha certificato il lavoro svolto dalla commissione parlamentare, è generalizzata e riguarda non solo il numero di abitazioni invendute, ma anche la diminuzione dell'erogazione di mutui immobiliari, il peggioramento della qualità del credito erogato, quello che il documento finale definisce il "preoccupante fenomeno di mancato accesso all'abitazione", fino all'aggravarsi del fenomeno degli sfratti.

La Commissione evidenzia inoltre che "l'annosa questione dei ritardi dei pagamenti della pubblica amministrazione ha assunto in questa fase di crisi economica una ormai inaccettabile caratteristica di sistematicità, che sottrae liquidità alle imprese, che è causa di un complessivo deterioramento dei rapporti contrattuali, anche fra soggetti privati, che in alcuni casi mette a repentaglio la stessa sopravvivenza delle aziende".

C'è poi da fare i conti con una "struttura rigida dei mercati immobiliari, sbilanciati verso la proprietà (le case di proprietà rappresentano in Italia il 72% delle abitazioni), che determina serie difficoltà a dare risposta ai diversi fabbisogni della domanda abitativa in locazione, da quelli delle giovani coppie a quelli di chi deve spostarsi per lavoro, da quelli degli studenti fuori sede, delle persone anziane e dei single a quelli degli immigrati regolari".

Per quanto riguarda in particolare gli affitti, "la situazione appare particolarmente difficile, se è vero che la quota di case in affitto in Italia (attualmente 4,4 milioni, il 18,8% delle abitazioni totali) è nettamente inferiore rispetto agli altri Paesi europei (Germania 57,3%, Olanda 47,3%, Francia 40,7%) e, soprattutto, che l'offerta di edilizia sociale in Italia è nettamente inferiore a quella degli altri Stati europei (4,5% sul totale, undicesima in Europa)". Inoltre, denuncia ancora l'organismo parlamentare, c'è una "inaccettabile quota di affitti 'in nero', che ormai supera le 500 mila abitazioni".

I deputati mettono infine in evidenza il problema del rapporto fra sistema creditizio e mercato immobiliare, sottolineando "la necessità di una chiara inversione di rotta rispetto ad una fase negativa caratterizzata da una sensibile diminuzione sia dei finanziamenti delle banche alle imprese per gli investimenti sia delle erogazioni di mutui alle famiglie per l'acquisto delle abitazioni".

Fonte repubblica
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L'incubo petrolio sulla ripresa debole
L'incubo petrolio sulla ripresa debole

INTIFADA SCENARI Dove va il prezzo del greggio? La soglia psicologica dei 100 dollari
Lo tsunami politico che dal Cairo ribolle nel Mediterraneo getta altre ombre su una ripresa che resta comunque assai incerta e piena di tensioni, come avverte il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. Intanto il canale di Suez resta aperto alle petroliere e l'oleodotto egiziano Sumed lavora

Gli effetti psicologici durano un giorno, ci dice un esperto di prezzi petroliferi. E infatti il prezzo del greggio al barile è sceso in Europa (il Brent) sotto i 101 dollari del giorno precedente, dopo che le petroliere hanno continuato a transitare senza problemi per il canale di Suez. Il problema per nulla psicologico è che però resta alto: il paniere Opec è il più alto dal settembre 2008, cioè 95,53 dollari. Con l'Egitto in fiamme e l'intero Mediterraneo in cui sembra ribollire uno tsunami politico, analisti e investitori tengono gli occhi fissi sui monitor, ripassando a memoria per tranquillizzarsi i numeri delle scorte già fatte, del fabbisogno coperto e dei rubinetti che l'Opec è pronta ad aprire in caso di grave necessità. E che l'Egitto in fondo vale soprattutto per il gas.

Gli scenari da incubo da contagio restano per ora nei cassetti o eventualmente per notti insonni, anche se l'Egitto dopo la Tunisia agita molto (e chi è stato bravo in borsa alle prime scosse contro Ben Alì ha già guadagnato parecchio). Sempre per tranquillizzarsi, va detto che il prezzo del petrolio è in aumento deciso almeno da novembre e di ben 30 dollari la barile dall'estate scorsa. La ripresa economica che l'Italia e l'Europa e in parte gli Stati Uniti non vedono, c'è dall'altra parte del mondo, nell'Asia che tira. Dunque se quei mercati richiedono petrolio per la loro crescita, il prezzo sale e salirà ancora. Negli Stati Uniti un simile scenario, seppur in forma ridotta rispetto per esempio a una Cina, è atteso per il terzo o quarto trimestre dell'anno, sempre che l'incendio del Cairo non bruci pure quella soglia psicologica.
Il miglior amico del prezzo del petrolio storicamente si chiama stabilità politica. Esattamente quella che manca in queste ore drammatiche in un Medio oriente già storicamente instabile per il conflitto israelo-palestinese. Mentre fra i peggiori nemici della ripresa è facile arruolare il livello di prezzo del petrolio: se sale, e di molto, una nuova frenata della crescita è inevitabile. Tanto più in un mondo uscito incerto dalla crisi economico-finanziaria più grave dal 1929. Sono di ieri, e per nulla psicologiche nonostante la concomitanza, le parole di Dominique Strauss Khan, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale: «La ripresa è in atto, ma non è la ripresa che volevamo. E' una ripresa tormentata da tensioni che potrebbero gettare i semi di una prossima crisi».

Per dare un segno tangibile di che cosa potrebbe significare un aumento sensibile del prezzo del petrolio, si può tornare al luglio del 2008. In quel mese, il greggio toccò il picco di 147 dollari a barile, con diversi analisti inorriditi che già pensavano di vedere all'orizzonte i 200. Negli Stati Uniti, il prezzo della benzina per i consumatori arrivò ai 4 dollari al gallone, creando il panico. Il mercato dell'automobile chiuse l'anno ai minimi storici dal 1992, altro anno di recessione, spingendo per l'ultimo miglio Gm e Chrysler alla bancarotta e modificando in parte i gusti dei consumatori. Che cominciarono a comprare auto con motori più piccoli e meno assetati degli 8 cilindri da tradizione americana.
«Più alto è il prezzo del petrolio e più la gente fa sforzi per consumarne meno», disse uno che se ne intendeva, l'algerino presidente dell'Opec Chakib Khebil. La crisi poi esplose in tutti i settori per colpa principale delle banche e della finanza, ma è chiaro che un nuovo innalzamento del prezzo del greggio avrebbe oggi effetti devastanti su una ripresa così incerta, oltre che specifici sull'automobile. Per dirne un'altra, se negli Usa la benzina superasse di nuovo i 3,5 dollari a gallone, l'amministratore delegato della Fiat-Chrysler Sergio Marchionne dovrebbe rifare i conti per la sua controllata americana, ancora dipendente per due terzi delle vendite (e dei profitti) da Suv e pick up con grandi motori. I quali, nonostante tutto, continuano a piacere agli americani: nel 2010 le vendite di questi modelli sono aumentate del 17%.

Se il Sumed, l'oleodotto che attraverso l'Egitto porta greggio dal Medio oriente verso l'Europa, lavora come se Hosni Mubarak fosse preso dal tran tran quotidiano e a Suez le petroliere hanno continuato la loro navigazione, le maggiori compagnie del settore hanno deciso di evacuare il loro personale non locale. E c'è allarme fra i costruttori di automobili stranieri lì presenti. La General Motors, la Bmw, la Daimler e la Nissan hanno fermato la produzione nei loro stabilimenti egiziani, in alcuni casi chiudendoli come ha fatto il costruttore americano nella sua fabbrica vicino al Cairo. Nel paese, il dato è del 2009, gruppi stranieri hanno prodotto complessivamente meno di 100.000 veicoli in Egitto. Fermare le linee non rovinerà i loro fatturati mondiali, ma almeno psicologicamente è dura.

30 DOLLARI AL BARILE - È l'aumento del prezzo del petrolio che si è registrato dall'estate del 2010 a oggi. Con una crescita più sensibile a partire da novembre

Fonte: Francesco Paternò - il manifesto - www.dirittiglobali.it

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