Protesti contro la tortura? Ti mettiamo in carcere!
E' accaduto negli Stati Uniti e in Italia non se ne è saputo quasi nulla
Protesti contro la tortura? Ti mettiamo in carcere! La testimonianza di un frate francescano scarcerato a luglio
La colpa del francescano Louis Vitale è quella di essersi introdotto senza autorizzazione a Fort Benning, Georgia, sede del Western Hemisphere Institute for Security and Cooperation, precedentemente noto come “Scuola delle Americhe". Una scuola dove si è insegnato a torturare. Ora si insegnano "tecniche avanzate di interrogatorio”.
16 settembre 2010
Fonte: Traduzione di Antonella Recchia
Da Lompoc, California, di Fr. Louie Vitale, OFM
(Da Nuclear Resister # 157, 1 giugno, 2010)
(Da Nuclear Resister # 157, 1 giugno, 2010)
Come faccio a resistere?
Molte delle persone che mi scrivono – amici e sostenitori – mi chiedono se sono sottoposto a brutalità o ad un trattamento rigido. Non nego che in molte prigioni e penitenziari esistano queste condizioni. Si potrebbe addirittura sollevare l’accusa di tortura. Per quanto mi riguarda, non ho mai sperimentato queste cose. Privazioni, sì, ma nessuna violenza o brutalità.
Le privazioni iniziano con la perdita della libertà. Ricordo che durante la mia prima incarcerazione, dopo aver fatto visite pastorali in carcere ai detenuti, fu uno shock per me rendermi conto che le porte della cella si chiudevano per me.
In carcere di solito fa freddo – o troppo caldo – le brande sono dure, e non sempre ci sono (come nel Penitenziario del District of Columbia), il cibo a volte è scarso e insapore, gli indumenti sono inadeguati (niente cappotti e neppure biancheria intima), sono della taglia sbagliata, e non sono puliti.
Avere accesso alle cure mediche è molto difficile, e quando ci sono, non sono sufficienti, soprattutto se si hanno problemi seri. La TV è sempre ad alto volume e quasi sempre accesa. Il rumore a volte è terrificante, anche per tutta la notte. Poi c’è l’isolamento dalla famiglia e dagli amici. Telefonare è costoso e complicato. Le visite sono limitate, principalmente avvengono attraverso un vetro, e sempre più con sistemi di video-conferenza.
La gente mi chiede: “Come fai a resistere?”
Ho passato gran parte del mio tempo, negli ultimi anni, a protestare contro la tortura, quella subita dalle vittime dei “diplomati” della Scuola delle Americhe, o della Baia di Guantanamo, di Abu Ghraib e Bagram, la prigione USA in Afghanistan che sta rimpiazzando Gitmo per la sua brutalità. Se tutto ciò non bastasse, ci sono continue detenzioni illegali in paesi che praticano torture ancora più evidenti. Questo accade in tutto il mondo.
Quando sono sul punto di compiangere me stesso, penso alle sofferenze sperimentate in queste e altre terribili situazioni, dalla schiavitù alle condanne a morte. Come posso davvero lamentarmi? Sì, sarebbe necessario raccogliere tutte le forme di protesta o agire per far cambiare le regole e le procedure, come è accaduto a Guantanamo, da parte di gruppi che chiedono riforme del sistema carcerario e che denunciano queste pratiche.
Personalmente, io metto in discussione l’intero sistema carcerario. Come ha detto il leader laburista Eugene Debs, “finché c’è anche una sola anima in carcere, io non sono libero.” Ma quando penso a queste situazioni (spesso di notte, quando sono a letto), mi sento in grado di sopportare le mie privazioni.
Ancora più significativo per me è il fatto di utilizzare queste esperienze e queste riflessioni per creare empatia con tutti coloro che vivono queste esperienze terribili. Siamo tutti parte di questo mondo, di questa creazione. Ogni persona è per me una sorella, un fratello. La loro sofferenza è anche la mia.
Il dono della compassione emerge contemplando la miseria del corpo umano. La mia situazione mi apre le porte di quell’energia compassionevole che abita tutta la creazione e mi offre un’esperienza di trasformazione che spero di condividere con l’intera comunità umana.
Di ciò rendo grazie e considero prezioso questo tempo.
fonte
Condividi su Facebook
Commenti